- A proposito di predestinazione: S. Agostino e i suoi critici moderni, Divinitas 7 (1963), pp. 243-284.
A chi prenda in esame l'immensa bibliografia che da parecchi anni si va accumulando intorno al vescovo d'Ippona, non può sfuggire la constatazione del diverso atteggiamento che assumono gli studiosi di fronte al pensiero agostiniano. Ai molti - e molto pregevoli - che ne mettono in rilievo il significato profondo e sempre vivo e la fecondità perenne, ne rispondono altri - non molti in verità - i quali, pur riconoscendo che S. Agostino ci ha dato più luci che ombre, si soffermano volentieri sugli aspetti meno validi e meno accettabili, secondo loro, del suo pensiero, e non gli risparmiano critiche severe. Intendiamo riferirci prevalentemente alla dottrina agostiniana intorno al peccato originale e alla grazia.
Si sa quali critiche e quali accuse suscitasse a suo tempo questa dottrina da parte dei pelagiani. Possiamo ridurle a quattro capi, tutti e quattro gravissimi. L'agostinismo - dicevano - nega il libero arbitrio, nega che il battesimo rimetta il peccato originale, proclama il fatalismo, e riduce il pensiero cristiano al manicheismo. S. Agostino rispose, dimostrò l'infondatezza, anzi la malafede, di quelle accuse e ribadì, chiarendola, la sua dottrina. L'agostinismo trionfò. La Chiesa riconobbe come valida, nelle linee essenziali, quella difesa e annoverò il vescovo d'Ippona tra i suoi maestri migliori: inter magistros optimos 1.
Le accuse, anche quelle mosse dai semipelagiani, non tardarono a cadere, ed i teologi, da allora in poi, guardarono a S. Agostino come al Dottore della grazia, la cui autorità era venerabile presso tutti. Con il protestantesimo e con il giansenismo quelle accuse si trasformarono in lodi, lodi non vere, che la Chiesa respinse e S. Agostino aveva respinto ante litteram. Oggi, qua e là, si preferisce tornare alle accuse. Di tanto in tanto, infatti, si propongono interpretazioni di S. Agostino che sono molto vicine, quando non siano proprio identiche, a quelle che ne davano i pelagiani; e non solo da parte dei razionalisti, che fanno del vescovo d'Ippona - com'è noto - il creatore dei dommi del peccato originale e della grazia, ma anche - e la cosa riveste un carattere di particolare gravità - da parte di studiosi cattolici.
Per comodità di esposizione possiamo distinguere quelli che si occupano di Pelagio e quelli che s'interessano direttamente di S. Agostino. I primi, indotti dall'argomento a stabilire un paragone tra i due maggiori protagonisti della controversia pro e contro la grazia, ci offrono un Pelagio tutto nuovo, un Pelagio ben diverso da quello della storiografia tradizionale, di fronte al quale il vescovo d'Ippona, con l'implacabile polemica, le esagerazioni, le oscurità, gli errori che gli attribuiscono, ne esce assai male; tanto male da doverne concludere, come ne concludono, che i suoi veri successori non sono i cattolici, ma i luterani ed i giansenisti 2.
Gli altri, interessandosi dei temi sempre vivi del peccato e della grazia, sembrano trovare nell'agostinismo non una fonte d'ispirazione, ma un pericolo da evitare o, più precisamente, una funesta eredità da cui liberarsi. L'accusa più generica e che si sente ripetere più di frequente è quella di pessimismo. Per molti il pessimismo agostiniano è una realtà che non ha bisogno di essere discussa, ma, tutt'al più, di essere spiegata. Tra le spiegazioni figurano: il suo temperamento, le circostanze della sua giovinezza, la lunga permanenza tra i manichei 3. Quest'accusa generica si articola spesso in altre più precise, come quella di aver sacrificato la libertà alla grazia 4, d'avere identificato il peccato originale con la concupiscenza 5, d'esser tornato sulle posizioni manichee 6, d'aver fatto della predestinazione un mistero pauroso e sconcertante, negando in Dio la volontà di salvare tutti gli uomini. Quest'ultima accusa in particolare è da qualche tempo il cavallo di battaglia di quanti sostengono che il pensiero occidentale si trova tutt'ora, malauguratamente, sotto l'influsso del pessimismo agostiniano. Su di essa, per saggiarne la consistenza, vorremmo intrattenerci in queste pagine.
In quanto alle altre, quando si è detto che non sono nuove, ma che ripetono con monotonia le accuse dei pelagiani, si è detto molto. Alcuni purtroppo, posti tra le battute polemiche, ingiuste e calunniose, dei pelagiani e le risposte vivaci e inequivocabili di S. Agostino, mostrano di preferire quelle a queste.
I pelagiani lo accusano di aver insegnato che il battesimo non opera la piena remissione dei peccati. S. Agostino risponde: Mentiuntur, insidiantur, tergiversantur, non hoc dicimus... baptismus igitur abluit quidem peccata omnia, prorsus omnia... sed non aufert infirmitatem.. 7.
I pelagiani lo accusano di aver sostenuto che il libero arbitrio è perito nell'uomo con il peccato di Adamo. S. Agostino risponde: Quis autem nostrum dicat, quod primi hominis peccato perierit liberum arbitrium de humano genere? Libertas quidem periit per peccatum, sed illa, quae in paradiso fuit, habendi plenam cum immortalitate iustitiam.. 8.
I pelagiani lo accusano - questa volta è solo Giuliano che parla - di aver detto che, difendendo la grazia, si nega il libero arbitrio e, difendendo il libero arbitrio, si nega la grazia. S. Agostino risponde: Calumniaris: non hoc a me dictum est... redde verba mea et vilescet calumnia tua 9.
I pelagiani lo accusano di manicheismo. S. Agostino, rievocati gli opposti errori dei nuovi eretici e dei manichei, risponde: Catholica utrosque redarguit... Desinant itaque pelagiani catholicis obiectare quod non sunt... Possunt enim duo errores inter se esse contrarii sed ambo sunt detestandi, quia ambo sunt contrarii veritati 10.
Dopo ciò, chi non crederebbe di avere in mano, in queste risposte, la chiave sicura per intendere il genuino pensiero di S. Agostino? Eppure non tutti lo credono. In ogni modo una cosa è certa: chi non lo creda non potrà darne la colpa alla presunta oscurità del Dottore della grazia.
Ma veniamo al difficile tema della predestinazione.
Per uno sguardo d'insieme sui giudizi correnti intorno al pensiero agostiniano su questo argomento, dobbiamo rifarci allo scritto d'un benedettino tedesco, non più recente, ma ancora letto, che ebbe ed ha una influenza non piccola, anzi, per qualcuno, decisiva. Uscito a Monaco di Baviera nel 1892 11, fu ristampato nel 1908 12 ed è stato tradotto in francese 1949 13. Lo scritto di Don Odilo Rottmanner si distingue per l'abbondanza di citazioni agostiniane e per un certo tono di sicurezza: l'autore ha tutta l'aria di voler mettere le cose a posto, e di dire, senza equivoci e senza pregiudizi, com'esse stanno nei libri del vescovo d'Ippona. E le cose starebbero in tal modo che uno studioso onesto non potrebbe negare che S. Agostino abbia negato l'universalità della vocazione divina alla salvezza. L'interpretazione, come si vede, non è nuova: è quella stessa che avevano data, con opposti propositi, Giansenio ed i razionalisti e, prima di loro, i semipelagiani.
I più noti studiosi di S. Agostino in questi ultimi anni 14 ed altri che si sono occupati del nostro argomento 15 non hanno accettato le conclusioni del Rottmanner.
Ma tutto ciò non ha impedito che lo scritto del Rottmanner facesse e faccia proseliti. Il Kolb 16, il Krebs 17, il Barth 18, il von Kienitz 19, il Pontet 20, lo Chené 21, per citarne alcuni, accettano, in sostanza, l'interpretazione del Rottmanner, che è passata, tale e quale, in un'opera di larga informazione come il Lexikon für Theologie und Kirche 22. In un'altra opera, pure di larga divulgazione, l'Enchiridion theologicum S. Augustini, uscito di recente, la stessa interpretazione è entrata in obliquo, in quanto l'autore la dichiara non priva di validi argomenti 23. Qualcuno poi vi aggiunge di suo l'accusa di dualismo, di fatalismo, di quietismo, di pessimismo tragico e desolante o quella di aver portato fuori strada, per quindici secoli, la teologia occidentale, creando un problema che non esiste 24.
Per completare il panorama sulla cittadinanza che detta opinione va acquistando tra gli studiosi, citeremo due autori, tutti e due benemeriti di studi agostiniani: il Marrou e il Plinval.
Il primo, nell'opuscolo divulgativo S. Augustin et l'augustinisme scrive che per farci un immagine meno dura di quella del "terribile dottore della predestinazione (per il quale, si può dire, gli urli dei dannati entrano a titolo di dissonanza nel concerto che forma la felicità degli eletti)", bisogna tener conto degli scritti che riflettono l'insegnamento ufficiale, la catechesi. Ed aggiunge: "ma le esagerazioni sussistono (non si possono rileggere gli scritti degli anni 412-430 senza notare ad ogni passo quelle che si potrebbero chiamare trappole per Giansenio); se, come lo dimostra la storia della sua influenza, gravi controversie sono sorte spesso sul suo vero pensiero, Agostino stesso, per una larga parte, è il primo responsabile" 25.
Il Plinval poi, nel suo libro Pour connaître la pensée de St. Augustin, per spiegare la crescente durezza della dottrina agostiniana sulla predestinazione, ricorre agli effetti dell'età avanzata (!), alla malattia, al pessimismo, all'isolamento intellettuale in cui Agostino sarebbe venuto a trovarsi nella sua Ippona, dove l'abitudine l'aveva portato a stabilire una certa forma di autoritatismo dottrinale.. 26.
A questi autori dobbiamo aggiungerne un terzo, il Thomas, che ha scritto un opuscolo sulla predestinazione dal titolo significativo: St. Augustin s'est-il trompé?; dove sostiene, appunto, che S. Agostino si è sbagliato. E che si sia sbagliato, conclude, è ora di dirlo in tutte lettere, perché, data la sua autorità nella Chiesa latina e la sua influenza sui teologi, la condanna del giansenismo, anzi la condanna del servo-arbitrio dei luterani perderebbe il proprio significato se non si riconoscesse un pericolo in questo senso nella dottrina agostiniana 27.
Di fronte a simili interpretazioni di S. Agostino si pongono due problemi, ambedue importanti, anche se non ambedue ugualmente gravi.
Il primo è storico, e riguarda il pensiero del vescovo d'Ippona, se sia in realtà quale lo intendono i moderni critici o sia quale lo hanno sempre capito i Dottori della Chiesa, S. Tommaso compreso.
II secondo è teologico, e riguarda la validità dommatica della dottrina agostiniana e, per riflesso, la validità dommatica delle opinioni che venissero proposte in sostituzione di quella.
A noi interessa maggiormente il secondo problema, perché in esso sono implicati, in recto, gli interessi della Chiesa, cui debemus nos nostraque; ma per ora non ci occupiamo che del primo.
Ci è parso degno d'essere preso in seria considerazione, perché si tratta di chiarire il pensiero d'un Dottore cui s'è ispirata su questo punto importante - e non su questo punto soltanto - la teologia posteriore. Prenderemo a partito lo scritto del Rottmanner, a cui sembra risalire la paternità di questo ritorno, su un argomento tanto delicato, ad interpretazioni di S. Agostino, che riteniamo gravemente erronee.
Va riconosciuto allo studioso benedettino il merito d'una paziente ricerca e d'una bella raccolta di testi agostiniani; ma ci pare che gli abbia fatto difetto l'acume teologico per valutarne la portata e la cura di esporre la dottrina agostiniana nei suoi aspetti diversi, quello soprattutto della Redenzione, che in S. Agostino sta alla base della dottrina del peccato originale e della grazia. Di conseguenza è accaduto al nostro autore di nascondere tra le maglie d'una tela intessuta con testi agostiniani quello che non esitiamo a chiamare un tradimento del pensiero agostiniano. Ma non è la prima volta che accade: a Giansenio era accaduto lo stesso. Per dire tutto in breve, noi troviamo nello scritto del Rottmanner un errore di principio, uno di metodo e uno, il più grave, di contenuto.
L'errore di principio è la definizione dell'agostinismo. Per agostinismo egli intende "la dottrina della predestinazione incondizionata e della volontà salvifica particolare" 28. Ora, a parte la verità di questa definizione, non è chi non veda che definire così l'agostinismo significa falsarne la prospettiva e impoverirne il contenuto. Noi pensiamo che non sia facile cogliere l'idea animatrice d'un pensiero vasto e profondo come quello di S. Agostino, se non si ha cura, soprattutto, di distinguere tra agostinismo filosofico, teologico, spirituale e magari agostinismo politico, come si è cominciato a dire in questi ultimi tempi. Nozioni dell'agostinismo ne sono state proposte molte e molto diverse; ma tutte, qualunque sia il giudizio che si voglia dare sulla loro essenzialità e completezza, ci mostrano ben altri orizzonti e ben altre ricchezze di pensiero che non quella propostaci dal Rottmanner 29.
La sua nozione dell'agostinismo non è accettabile anche se ristretta al solo agostinismo teologico, perché dà alla predestinazione un posto che nel complesso dottrinale del vescovo d'Ippona non le compete. La predestinazione, pur avendo un'importanza rilevante, non è una tesi di fondo. La tesi che sta a cuore a S. Agostino è un'altra; è il paolino iustificati gratis per gratiam ipsius (Rom 3, 24), non ex operibus, ut ne quis glorietur (Efes 2, 9): è, in una parola, la gratuità della grazia e della salvezza. Difatti, tre volte egli raccoglie in sintesi le verità che, a suo parere, la Chiesa difende contro i pelagiani, e in nessuna di esse troviamo menzionata la predestinazione; troviamo, invece, vicino al peccato originale e all'imperfezione della nostra giustizia, la gratuità della grazia, da cui proviene che anche i nostri meriti siano doni di Dio 30. Nel De praedestinatione sanctorum e nel De dono perseverantiae, le due opere che, insieme al De correptione et gratia, costituiscono il cavallo di battaglia di tutti i predestinaziani, S. Agostino dice chiaramente quali siano le tesi che prende a dimostrare: esse riguardano l'inizio della fede e la perseveranza finale, che sono, l'uno e l'altra, un dono di Dio 31. Parla anche - non v'è dubbio - della predestinazione; ma solo per dimostrare che questi doni non ci vengono accordati secondo i nostri meriti. "Si deve predicare la predestinazione - scrive infatti - affinché si possa difendere, come in una fortezza inespugnabile, la vera grazia di Dio, cioè quella grazia che non ci viene accordata secondo i nostri meriti" 32.
Ben altro invece è il posto che occupa nell'insieme della dottrina agostiniana la nozione paolina della redenzione. Essa è il fondamento, l'anima, lo scopo della sua lotta appassionata contro i pelagiani. La sua bandiera sono le parole di S. Paolo: Ut non evacuetur crux Christi (1 Cor 1, 17). Ne parleremo fra poco. Ecco intanto la sua professione di fede:... "ripeto che nessuno fu o può essere giusto se non è giustificato dalla grazia di Dio per mezzo di N. S. Gesù Cristo, e questo crocifisso. Difatti la stessa fede, che ha salvato i giusti nell'antichità, salva anche noi, la fede nel Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, la fede nel suo sangue, la fede nella sua croce, la fede nella sua morte, la fede nella sua resurrezione. Avendo dunque lo stesso spirito di fede, anche noi crediamo, ed è per questo che parliamo 33". Non si andrebbe lontano dal vero se, parafrasando una espressione del santo Dottore 34, si dicesse che l'anima dell'agostinismo teologico è la storia del primo e secondo Adamo, trascritta nella storia dei singoli uomini e dell'intera umanità: peccato e giustificazione, amore di sé ed amore di Dio, la città terrena e la città celeste, gli eterni destini dell'una e dell'altra, son temi che rientrano in questa trascrizione e ne costituiscono la natura.
La nozione dell'agostinismo, che ci viene proposta dal Rottmanner, non sarebbe dunque accettabile anche se il suo contenuto fosse vero; ma dobbiamo constatare, per giunta, che vero non è: S. Agostino non ha negato, come si asserisce, che Dio abbia la volontà di salvare tutti gli uomini. Potremmo dimostrarlo attenendoci ai presupposti del metodo seguito dal nostro autore. Ma riteniamo necessario rilevare che questi presupposti, benché enunciati con tanta solennità e fermezza 35, non sono giusti. Eccoli in breve:
a) Primo: la dottrina di S. Agostino sulla predestinazione è andata sviluppandosi verso forme sempre più dure; ciò dunque che vale per conoscere il vero pensiero agostiniano sono gli ultimi scritti. L'autore fissa i termini a quo al 417-418, ma non ne dice il perché. E aggiunge: "Il compiacente procedimento, più volte usato, di mitigare le scomode affermazioni degli ultimi scritti con quelle più benevole dei primi sta in contrasto sia con l'esplicito desiderio sia con l'indefesso progresso di questo potente spirito (S. Agostino)" 36.
b) Secondo: occorre distinguere in S. Agostino tra la teoria diventata sempre più dura e la pratica restata sempre mite: per il Dottore della grazia in teoria solo pochi sono predestinati, in pratica tutti 37. Rispondiamo:
a) è utile, anzi doveroso, studiare il pensiero d'un autore nel suo progressivo formarsi; ma occorre andar molto cauti, se non si vuol cadere nell'arbitrio, prima di attribuirgli cambiamenti d'opinione. In particolare quando si tratti di S. Agostino, il quale ha detto a tutti con sincerità spietata - e non una volta sola - quali siano stati i suoi cambiamenti. Ci ha detto infatti che ha cambiato opinione tra il 396-97 circa l'initium fidei, e longe postea - forse tra il 417-18 - sull'interpretazione più probabile della pericope paolina, Romani 7, 7-25 38.
Di altri cambiamenti, che tocchino il fondo dei problemi, non ci ha parlato; e attribuirglieli è rischioso.
I pelagiani l'accusarono di aver cambiato opinione circa il peccato originale; ma l'accusa era falsa. Lo stesso santo Dottore la respinge energicamente, rimandando i suoi avversari agli scritti giovanili 39. Alcuni moderni gli rimproverano di essere passato da una posizione aperta ad una intransigente sulla necessità del battesimo, deviando, con ciò, dalla tradizione 40; ma il rimprovero non è meritato 41. Altri parlano d'una sua ritrattazione circa la sorte dei bambini morti senza battesimo 42; ma il rilievo non ci pare giusto 43.
Allo stesso modo riteniamo che non sia giusto attribuirgli cambiamenti, dopo il 397 sulla predestinazione. S. Agostino non ne parla e l'esame dei suoi scritti non ci autorizza a parlarne. Le linee essenziali ed i temi fondamentali sono già nel De diversis quaestionibus ad Simplicianum, appunto del 397 44. Le stesse linee nel De peccatorum meritis et remissione, la prima opera contro i pelagiani, del 412 45. Le stesse nel De spiritu et littera dello stesso anno 46. E così via in tutte le opere antipelagiane.
Ci pare dunque che il frequente ricorso ai supposti cambiamenti di S. Agostino circa la dottrina della grazia non sia un metodo molto buono per interpretarne il pensiero. Un metodo che vedremmo volentieri rilegato tra i luoghi comuni destinati alla dimenticanza. Le opere del vescovo d'Ippona sono là, molte, ma non oscure. Dove le dichiarazioni del S. Dottore o un attento esame di tutti i testi non ci riveli cambiamenti, non possiamo e non dobbiamo supporli. Chiarire e perfezionare il proprio pensiero non significa cambiarlo. Nè un cambiamento di esegesi di un passo scritturale porta con sé, necessariamente, un cambiamento di posizioni teologiche. Lo vedremo, nel nostro caso, con il testo di S. Paolo (1 Tim 2, 4).
Va poi rilevato che un autore non deve sempre dir tutto. S. Agostino si è doluto che gli avversari abbiano dimenticato nei suoi riguardi questo principio di buon senso. Ai pelagiani che citavano contro di lui i primi suoi scritti, quasi che, difendendo la libertà contro i manichei, avesse negato la grazia, replica che non l'ha negata, ma solo che, in determinati luoghi, non ne ha parlato perché la questione non lo richiedeva 47.
Lo stesso potremmo rispondere, oggi, a quanti lo accusano di aver taciuto della libertà - e quindi di averla negata - quando difendeva la grazia. Ma non ce n'è bisogno. Non è affatto vero che S. Agostino abbia taciuto della libertà quando difendeva la grazia, come non è vero - ed egli stesso ce l'ha detto - che abbia dimenticato la grazia quando difendeva la libertà 48.
b) In quanto poi al presunto contrasto tra la teoria e la pratica, è ben singolare che il rilievo sia stato fatto a proposito d'un Dottore che ha insistito come pochi - forse come nessuno - sull'intimo nesso che lega la teologia alla vita, ed ha messo, perciò, tanto spirito pastorale nei suoi scritti teologici e tanta teologia nei suoi scritti pastorali. S. Agostino ha operato, com'è noto, una mirabile unità fra la filosofia, la teologia, la pietà e l'apostolato. Parlare di fratture, in lui, tra la vita del pensiero e la vita dell'azione è proprio impossibile. Non v'è dubbio che la predestinazione, argomento complesso e difficile, presenta per i suoi aspetti diversi - la preparazione dei benefici divini e la nostra cooperazione alla grazia - un'apparente antinomia, ma questa si risolve - e S. Agostino lo insegna - in quella che nella vita cristiana s'incontra tra la volontà divina significata e la volontà divina di beneplacito, di cui la prima richiede da noi l'obbedienza, l'altra la fiducia.
Infine, a chi sostiene - e con un tono che mal si concilia con il rispetto che tutti dobbiamo ai Padri della Chiesa - che il vescovo d'Ippona non ha il coraggio di proporre al popolo con parole chiare la sua dottrina della predestinazione, ch'egli stesso riterrebbe odiosa 49, non possiamo dare altra risposta che quella di rinviarlo ai discorsi del vescovo d'Ippona. Son essi che parlano ancora e dimostrano che il pio pastore, insieme ai grandi problemi della grazia, di cui ha parlato spesso e mirabilmente, ha toccato anche, e a chiare note, il problema della predestinazione, compreso quello delicatissimo dell'abbandono dei non eletti 50.
Si deve aggiungere, poi, che simili interpretazioni ignorano affatto lo sfondo spirituale della dottrina agostiniana della predestinazione, tutta protesa a difendere le ragioni teologiche dell'umiltà cristiana, della preghiera, della fiducia in Dio.
Ve n'è un bell'esempio nel passo del De dono perseverantiae, 22, 57-62 che è stato preso - e non si capisce il perché - a fondamento della su indicata interpretazione. S. Agostino vi sostiene contro l'obbiezione dei semipelagiani che la dottrina della predestinazione si può ben predicare al popolo, purché chi lo fa, lo faccia in modo da non indurre i meno preparati a false conclusioni. Lo stesso vale per la prescienza divina. Nessuno può negarla - e i semipelagiani non la negavano di certo - eppure a parlarne incautamente si rischia d'indurre qualcuno all'inerzia e all'indifferenza 51. Comunque, conclude il S. Dottore, parlando della predestinazione non si deve mai omettere di esortare il popolo alla preghiera quotidiana per ottenere e il dono della perseveranza e alla fiducia in Dio 52.
Questo il clima soprannaturale in cui si colloca S. Agostino quando parla e scrive della predestinazione, e questo è il clima in cui dobbiamo collocarci noi pure per intendere il suo pensiero.
Veniamo dunque alla questione principale.
Il Rottmanner sostiene, come a suo tempo aveva sostenuto Giansenio, che S. Agostino ha negato in Dio la volontà salvifica universale. Noi riteniamo che questa affermazione, come l'intende l'autore, cioè della volontà divina antecedente e condizionata - perché solo di questa la teologia afferma l'universalità - è insostenibile. Il Rottmanner, esposta la dottrina agostiniana sul numero determinato degli eletti, sembra chiedersi: con questa dottrina può esserci in S. Agostino la persuasione della volontà salvifica universale? Rispondiamo che la domanda è posta male: non si tratta di sapere se ci può essere, ma se c'è. E che ci sia, crediamo di poterlo dimostrare non da questo o quel testo ripescato tra gli scritti di S. Agostino oratore allo scopo di mitigare la durezza dei troppi testi di S. Agostino teologo, come qualcuno scrive con un certo tono di sufficienza sprezzante, ma dalla dottrina che S. Agostino teologo mette a base del suo edificio dommatico contro i pelagiani, la dottrina della redenzione. Infatti, la lunga e dura lotta che il S. Dottore sostenne contro il pelagianesimo altro non fu che un'appassionata difesa del messaggio paolino della salvezza.
L'opera redentrice di Cristo negli scritti del vescovo d'Ippona è stata studiata finora in relazione al suo concetto formale; ma non, per quanto ci costa, in relazione all'eresia pelagiana. Eppure è in fase polemica che S. Agostino ha illustrato e difeso i diversi aspetti della redenzione.
Lo ha fatto per dimostrare che la questione su cui verteva la controversia non era una questione marginale, ma una questione che toccava i fondamenti stessi della fede. La controversia verteva, come ognuno sa, sul peccato originale e sulla giustificazione, due temi centrali del cristianesimo. S. Agostino intuì la loro correlatività essenziale, e vide nella negazione del primo la negazione del secondo. Ciò spiega perché il suo sforzo poderoso si concentrò nel compito di chiarire e difendere il concetto teologico di giustificazione.
Cominciò con lo stabilire una tesi di teologia biblica, che si può riassumere così: Cristo è il Salvatore degli uomini, essendo la salvezza il fine proprio dell'Incarnazione; nessuno dunque che non abbia bisogno di essere salvato può appartenere al Cristo.
Questa tesi viene raccomandata a una lunga serie di testi raccolti dal N. Testamento - una sessantina, se li abbiamo contati bene - nei quali la S. Scrittura configura con immagini diverse l'opera redentrice di Cristo. Le immagini più frequenti sono: vivificare, liberare, illuminare, salvare, riconciliare, redimere, effondere il sangue, offrire se stesso per i nostri peccati, propiziare... 53. S. Agostino aggiunge ai testi del N.Testamento quelli del V.Testamento, in particolare il testo celebre di Isaia sul Servo di Jahve, inserisce tra un testo e l'altro qualche breve commento e tira la conclusione. Eccola con le sue stesse parole:... "La Chiesa universale ritiene... che ogni uomo è separato da Dio se non viene a Dio riconciliato per mezzo del Mediatore Gesù Cristo, né alcuno è separato da Dio se non a causa dello sbarramento dei peccati. Nessuno, dunque, viene riconciliato se non attraverso la remissione dei peccati per unam gratiam misericordissimi Salvatoris, per unam victimam verissimi sacerdotis" 54. Da questa conclusione, un dilemma: o i bambini non appartengono al Cristo o gli appartengono per l'unico titolo possibile, il bisogno della salvezza. Da questo dilemma, un grido pastorale che riecheggia tante volte nelle opere teologiche del vescovo d'Ippona: lasciate, dice egli ai pelagiani, lasciate che Gesù sia Gesù anche per i bambini; non li dichiarate immuni dalla necessità del battesimo perché, lodandoli, li condannate alla rovina.
Si può vedere in ciò un bell'esempio del metodo teologico seguito dal vescovo d'Ippona: egli affida la dimostrazione scritturistica del peccato originale non a questo o a quel testo - sia pure al testo classico (Rom 5, 12) -; ma alla dottrina della S. Scrittura sul domma della redenzione, domma fondamentale che viene studiato e chiarito fin dall'inizio della controversia.
Il Rivière ha rilevato giustamente che il saggio di teologia biblica sulla redenzione, offertoci da S. Agostino nel De peccatorum meritis et remissione, non ha riscontro in tutta la patristica 55. Possiamo aggiungere, da parte nostra, che esso costituisce la base e il filo conduttore della controversia antipelagiana. Per convincersene basta considerare gli aspetti della redenzione che il S. Dottore difende contro le diverse facce della eresia. Essi sono: la necessità, l'oggettività, l'universalità.
I pelagiani, infatti, insegnavano che gli uomini sotto la legge mosaica o, anche, sotto la legge di natura avevano nel libero arbitrio il potere di diventare giusti e raggiungere la salvezza; con la venuta del Cristo una via nuova, più comoda e più perfetta, si sarebbe aperta loro; sostenevano, inoltre, che il Cristo ci ha redento con l'esempio della virtù come Adamo ci aveva nociuto con l'esempio del peccato; concludevano, infine, che i bambini, non avendo il peccato originale, non avevano bisogno del battesimo per raggiungere la vita eterna. Tre facce d'un solo errore che portava allo svuotamento del domma cristiano della redenzione. S. Agostino se ne avvide e reagì energicamente. Difese anzitutto l'assoluta necessità della redenzione. Nessuno diventò mai o può diventare giusto avanti a Dio senza la mediazione dell'unico Mediatore. Gesù Cristo non è solo la via più comoda e più perfetta, ma è l'unica via, la via insostituibile, oggi come ieri, prima come dopo la legge del Sinai 56. Asserire il contrario è lo stesso che svuotare d'ogni efficacia la croce di Cristo 57. La dottrina cristiana non ha dubbi su questo punto: senza la fede nell'unico Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, neppure gli antichi giusti furono mondati dai loro peccati e giustificati dalla grazia 58. E non si tratta, aggiunge S. Agostino, d'una questione marginale, della quale si possa dubitare o nella quale si possa sbagliare salva la fede, ma si tratta della essenza stessa della nostra fede, della regula fidei che ci fa cristiani 59.
Il S. Dottore chiarisce, poi, il concetto di redenzione e di giustificazione, opponendo al soggettivismo estrinsicista dei pelagiani il valore oggettivo dell'una e l'interiorità dell'altra 60.
I rapporti dunque che ci legano ad Adamo e a Cristo non possono ridursi alla sola imitazione, ma importano una profonda solidarietà da cui dipende che la sorte di tutta l'umanità sia nelle mani di due soli uomini, l'uno uomo-uomo, l'altro uomo-Dio. Ed ecco la conclusione: voi, diceva S. Agostino rivolto ai pelagiani, opponete l'imitazione alla imitazione - l'imitazione di Cristo all'imitazione di Adamo - noi, invece, la rigenerazione alla generazione 61.
Ma ciò che più interessa a noi in questa sede è la tenace difesa della universalità della redenzione che S. Agostino sostenne, durante tutto il corso della controversia pelagiana, allo scopo di dimostrare l'universalità del peccato originale. Questa difesa, che durò per quasi venti anni, si raccomanda a tre ordini di argomenti:
a) Cristo è morto per tutti, dunque tutti son morti. È l'argomento tratto dalle parole di S. Paolo, (2 Cor 5, 14): si unus pro omnibus mortuus est, ergo omnes mortui sunt. Et pro omnibus mortuus est Christus.
Questo testo paolino parve al S. Dottore particolarmente felice, perché esprime - secondo l'interpretazione che egli ne dava - l'universalità della redenzione e l'universalità del peccato, dimostrando questa da quella.
Ad esso quindi ricorre di preferenza, quasi per riassumere i numerosi passi scritturali ch'egli stesso aveva raccolto e commentato, all'inizio della controversia, nel De peccatorum meritis et remissione.
Il testo (2 Cor 5, 14) ricorre nelle opere antipelagiane di S. Agostino almeno 20 volte 62 e serve sempre a dimostrare che, se Cristo è morto anche per i bambini, anche i bambini hanno bisogno della redenzione, perché anch'essi, a causa del peccato originale, son peccatori. Il dilemma quindi di fronte al quale venivano a trovarsi i pelagiani era questo: o negare che Cristo sia morto per tutti, o ammettere il peccato originale anche nei bambini: questo non volevano farlo, quello non osavano. Non citeremo tutti i testi: ne basteranno alcuni tra i più interessanti. Uno dei più vivaci è nel Contra Julianum, opera del 421. Citate le parole dell'Epistola ai Romani, 5, 8-9 - Dio mostra il suo amore verso di noi per il fatto che Cristo è morto per noi quando eravamo ancora peccatori -. S. Agostino continua rivolto a Giuliano: "Tu vuoi far credere che in queste parole non sono compresi i bambini. Ma ti si chiede: se i bambini non sono compresi tra i peccatori, come mai è morto per loro Colui che è morto per i peccatori? Risponderai che Cristo è morto... anche per i peccatori... Io dico invece che è morto solo per i peccatori", e cita le parole dell'Apostolo: "poiché se uno è morto per tutti, dunque tutti son morti, e per tutti è morto (Cristo)"; dopo le quali parole, riprende il suo ragionamento: "Qui non ti è permesso di negare che Gesù sia morto solo per coloro che son morti... Difatti S. Paolo dimostra che tutti son morti dal fatto che uno è morto per tutti. Questo testo te lo getto in faccia, te lo caccio in gola, te lo faccio trangugiare: prendilo, è la medicina della tua salvezza, non voglio che tu moia. Uno è morto per tutti, dunque tutti son morti... ma poiché non si tratta di morte corporale, non resta se non che siano morti a causa del peccato tutti coloro per i quali Cristo è morto... Ne segue che, se i bambini non contraggono il peccato originale, non son morti; se non son morti, non è morto per loro Colui che non è morto se non per i morti. Ma tu - conclude trionfalmente S. Agostino - nel tuo primo libro contro di me hai detto che Cristo è morto anche per i bambini 63".
Il Contra Julianum si chiude con un richiamo allo stesso testo paolino, quasi a sintesi e conclusione di tutta l'opera, nella quale, oltre l'argomento scritturale e liturgico a favore del peccato originale, aveva esposto diffusamente l'argomento patristico ed empirico.
Le parole di S. Paolo son seguite da questo commento conclusivo: haec negans, his repugnans, ista convellere moliens catholicae fidei monimenta, ipsosque nervos disrumpere Christianae religionis veraeque pietatis, audes insuper dicere, quod contra impios bella susceperis 64.
Lo stesso testo torna frequentemente nell'Opus imperfectum contra Iulianum. Eccone un esempio. "In tutti gli uomini insieme al peccato è passata la morte a causa di colui nel quale tutti son morti; son ivi compresi anche i bambini, perché anche per loro è morto Cristo, il quale per questo è morto per tutti perché tutti son morti. Qualunque ragionamento tu faccia, qualunque sotterfugio, qualunque sforzo per sovvertire o pervertire le parole dell'Apostolo, non riuscirai a dimostrare che i bambini siano immuni dal peccato, perché non osi negare che anche per loro Cristo sia morto 65".
A questo testo ne fa riscontro un altro, meno vivace, ma più solenne. Giuliano l'aveva accusato di non differire in nulla dal suo maestro (che sarebbe stato Mani, il fondatore del manicheismo). S. Agostino risponde che Giuliano ha detto la verità non volendo, come Caifa quando profetò la morte di Cristo. È vero: egli, Agostino, non differisce in nulla dal suo maestro; ma il suo maestro non è Mani, bensì Cristo, il quale gli ha insegnato che i pargoli sono (spiritualmente) morti, finché non li ridoni alla vita Colui che è morto per tutti: dottrina che l'Apostolo espone dicendo: "dunque son morti tutti, e per tutti è morto (Cristo)". S. Agostino continua riconoscendo l'autorità dei maestri che l'hanno aiutato a capire, sul peccato e la redenzione, la dottrina del Maestro. "Il mio maestro - scrive - è Cipriano... il mio maestro è Ambrogio, di cui non solo ho letto i libri, ma di cui ho ascoltato le parole e da cui ho ricevuto il lavacro della rigenerazione. Io - conclude - son ben lontano dai meriti di lui: ma confesso e protesto che in questa questione non differisco affatto dal mio maestro 66".
Queste parole possono considerarsi come il testamento teologico di S. Agostino: poco dopo sopraggiunse la morte, "e su l'eterne pagine cadde la stanca man".
b) Gesù è Gesù anche per i bambini. L'altro ordine di argomenti cui S. Agostino affida la dimostrazione dell'universalità della redenzione, e quindi dell'universalità del peccato originale, è il nome santissimo di Gesù, che il S. Dottore interpreta costantemente in senso universalistico. Son questi i testi più ricchi di afflato religioso, testi che ci danno un indice eloquente dell'animo pastorale di S. Agostino, vibrante di commozione e ansioso della salvezza di tutti, particolarmente dei bambini. È in difesa dei bambini ch'egli sente il dovere di parlare forte, tanto più forte quanto meno essi possano parlare per se stessi 67.
Questi testi ricorrono, di nuovo, dall'inizio alla fine della controversia pelagiana. All'inizio, nel De peccatorum meritis et remissione, leggiamo:... appellatus est Jesus, propter salutem quam nobis tribuit... Quis est igitur qui audeat dicere Dominum Christum tantum maioribus non autem parvulis esse Iesum? 68.
Nel secondo libro del De nuptiis et concupiscentia, concludendo, scrive con tono accorato a proposito di Giuliano: "...pensi come vuole della concupiscenza... ma almeno abbia pietà dei pargoli, non li lodi inutilmente, non li difenda crudelmente... conceda che Gesù sia Gesù anche per loro... se vuol essere cristiano cattolico... Gesù è Gesù, perché è Salvatore. Egli infatti salverà il suo popolo, e in questo popolo ci sono anche i pargoli; lo salverà dai suoi peccati, dunque anche i pargoli hanno il peccato originale, a causa del quale Gesù, cioè il Salvatore, può essere Gesù anche per loro 69".
Questo stesso motivo torna più di frequente nell'Opus imperfectum contra Iulianum 70, dove poco prima della conclusione leggiamo:...voi non volete che Cristo Gesù sia Gesù anche per i pargoli, perché sostenete che non siano contaminati da alcun peccato originale, mentre Egli, Gesù, è stato chiamato così perché è venuto a salvare il suo popolo non dalle malattie corporali... ma dai loro peccati 71.
Qualche tempo prima, nel libro quarto aveva risposto all'accusa di Giuliano con questa professione di fede: mi glorio che il mio vero maestro, e contro di te e contro Mani, sia Gesù, ch'io riconosco (e tu lo neghi) Gesù anche dei pargoli; poiché perì Adamo e in lui perimmo tutti, e nessuno si salva dalla perdizione se non per opera di Colui che è venuto a cercare ciò che era perito 72.
Potremmo aggiungere altri testi traendoli dai discorsi, dove l'ardore apostolico e la grande arte oratoria del vescovo d'Ippona danno le ali ai motivi teologici e fanno di molte pagine un bell'esempio di eloquenza sacra 73; ma non ce n'è bisogno.
Noteremo solo che S. Agostino aveva stabilito fin da principio una tesi teologica di fondo, la tesi che pone un ordine essenziale tra Incarnazione e Redenzione 74, e si serve del nome di Gesù per ricordare quella tesi e tirarne le conclusioni contro i pelagiani.
c) Gesù è il giudice di tutti gli uomini perché ha redento tutti con il suo sangue. Il terzo ordine di argomenti a favore dell'universalità della redenzione è legato al concetto di Cristo Giudice. A chi esaltava la natura negando la grazia, S. Agostino ricorda che Dio non è solo Creatore, ma anche Salvatore; la natura umana dunque non dev'essere solo lodata, perché opera di Dio, ma dev'essere anche sanata perché non perisca.
A chi, poi, esaltava la grazia dimenticando la natura, in particolare la libertà, lo stesso S. Dottore ricorda che Dio non è solo Salvatore, ma anche Giudice; ora, prosegue, si non est Dei gratia quomodo salvat mundum? et si non est liberum arbitrium quomodo iudicat mundum? 75.
Ma prima di tutto è Salvatore: Venit Christus, sed primo salvare, postea iudicare 76. L'ufficio di Giudice ha le stesse proporzioni universali di quelle di Salvatore e su di esso si fonda. "Giudicherà l'orbe terrestre nell'equità, non una parte sola, perché non una parte sola ha riscattato. Totum iudicare debet, quia pro toto pretium dedit 77".
Non pare dunque che possano esserci dubbi sulla universalità della redenzione secondo S. Agostino e sulla centralità di questa tesi nell'agostinismo. Quando si leggono nel vescovo d'Ippona parole come queste: sanguis innocens fusus delevit omnia peccata... redemit omnes captivos 78 non possono non essere interpretate secondo il più genuino e consolante universalismo.
Eppure anche su questo argomento sono stati proposti dubbi, anzi è stata difesa la tesi contraria. La difese a suo tempo Giansenio, l'hanno difesa alcuni critici moderni. Vediamo con quale fondamento.
Scrive il Pontet: "Se S. Agostino afferma che il Redentore deve giudicare l'universo intero, perché per l'intero universo ha dato il suo sangue, noi non dobbiamo, noi non possiamo prendere quest'ultima espressione senza una desolante restrizione" 79. Per provare questa "desolante restrizione" il Pontet cita due testi di cui uno non dice nulla e l'altro, nella forma in cui è citato, non è autentico.
Ecco il primo:...solis praedestinatis ad aeternam salutem, non autem omnibus hominibus eius (Christi) opera bona profuerunt 80. Che cosa ci sia in queste parole, non sapremmo dirlo. Non vediamo chi non le possa ripetere senza essere tacciato di predestinazionismo; altro infatti non contengono che questa verità: i meriti di Cristo non giovano a quelli che si perdono.
Ed ecco il secondo: ...non perit unus ex illis pro quibus (Christus) mortuns est 81. Giansenio riteneva questo testo decisivo per la sua interpretazione 82. Il Pontet sembra dello stesso parere. E a buon diritto. Il testo ha un senso apertamente predestinaziano. Infatti, se nessuno di quelli per i quali Cristo è morto perisce, ne segue che Cristo non è morto per quelli che periscono. Ma il testo non è esatto. La lezione nell'edizione critica dell'epistolario agostiniano preparata dal Goldbacher per il CSEL è la seguente:...non perit unus pusillus pro quibus (Christus) mortuus est. I codici 83 e il contesto 84 dimostrano che questa è la vera lezione, non quella seguita dalle edizioni precedenti.
Ora in questa lezione il significato delle parole è ben altro: v'è una allusione a (Mt 18, 14) (non est voluntas ante Patrem vestrum, qui in caelis est, ut pereat unus de pusillis istis) che rende l'espressione agostiniana bella e commovente. Che poi l'espressione suddetta non abbia un senso esclusivo, lo dimostra la frequenza con la quale S. Agostino ripete il binomio biblico di pusilli e magni 85, per dire che Gesù è il Salvatore degli uni e degli altri, che agli uni e agli altri elargisce la sua grazia e li libera dalla morte eterna 86.
Come si vede, il testo che doveva essere decisivo è molto poco... decisivo.
In quanto a Giansenio, se per ciò che riguarda il nostro testo può avere a sua discolpa il fatto che non possedeva una lezione esatta, non sapremmo dire quale attenuante abbia quando nel capitolo del suo Augustinus, dedicato alla questione se Cristo sia morto per tutti, lancia asserzioni come questa: Augustinus numquam in scriptis suis fatetur Christum pro omnibus, nullo excepto, se dedisse in redemptionem, vel crucifixum esse, vel mortuum; sed tantummodo pro illis quibus mors eius profuit, qui certo modo multi et omnes sunt 87.
Eppure il vescovo di Ypres, che conosceva le opere agostiniane, non poteva ignorare i molti testi che abbiamo riportati sopra o a cui abbiamo accennato; non poteva ignorare che S. Agostino dice in tutte lettere che Gesù Cristo ha redento col suo sangue anche il traditore Giuda: proiecit (Iudas) pretium argenti quo ab illo Dominus venditus erat, nec agnovit pretium quo ipse a Domino redemptus erat 88. Cosa pensare allora delle affermazioni di Giansenio? Pensi ognuno quel che vuole. A noi basta aver constatazioni da fare.
Da quanto abbiamo detto nasce spontanea una domanda che tocca il fondo della questione che c'interessa: nell'universalità della redenzione che S. Agostino mette a base dell'universalità del peccato originale, è contenuta o no la volontà salvifica universale?
La risposta, a nostro parere, non può essere che affermativa: la impongono la logica e la storia. Anche la storia. Infatti i predestinaziani di tutti i tempi, dal presbitero Lucido al vescovo Giansenio e ai giansenisti, negando in Dio la volontà salvifica universale hanno negato anche, contemporaneamente, l'universalità della redenzione; e la Chiesa, riaffermando contro di loro l'universalità della redenzione ha riaffermato, nello stesso tempo, la volontà salvifica universale. Ad Arles contro Lucido, a Quiersy contro Gottschalk, a Trento contro i protestanti; nella condanna delle cinque proposizioni di Giansenio e in quella dei giansenisti la verità gelosamente difesa dalla Chiesa è sempre la stessa, una verità tante volte inculcata dalla S. Scrittura, questa: Gesù Cristo è morto per tutti, anche se non tutti mortis eius beneficium recipiunt 89.
L'altra verità - che Dio vuol salvi tutti gli uomini - non è menzionata esplicitamente, se ben ricordiamo, che una volta sola, a Quiersy 90. Ma non ce n'era bisogno: essa è contenuta, implicitamente ma inequivocabilmente, nella prima.
Questa lezione della storia costituisce una conferma magnifica degli argomenti di ragione. Se la morte di Gesù Cristo per i peccatori è il segno più grande, come insegna la rivelazione, dell'amore di Dio per gli uomini, Dio non può non volere la salvezza di quelli per i quali il suo Unigenito ha sparso il sangue. S. Agostino dunque, che ha difeso con tanta insistenza la prima verità, non può aver negato la seconda. Chi l'asserisce o a titolo di lode, come fecero i predestinaziani, o a titolo di biasimo come fanno i critici moderni, sono lontani dal pensiero del vescovo d'Ippona. Di lode o di biasimo, abbiam detto. È questa la sorte di S. Agostino: essere lodato e biasimato per lo stesso motivo; ma spesso, come nel caso nostro, quel motivo non esiste.
A questo punto sentiamo, però, che le nostre affermazioni urtano contro una difficoltà da molti ritenuta tra le più gravi dell'agostinismo: se il vescovo d'Ippona ammette la volontà salvifica universale, come va che negli ultimi anni di sua vita interpreta costantemente in senso restrittivo le tanto limpide parole di S. Paolo: (Deus) vult omnes homines salvos fieri et ad agnitionem veritatis venire (1 Tim 2, 4)? Per rispondere a questa difficoltà giova prender le mosse da lontano, giova ricordare, anzitutto, un dato della rivelazione da cui la storia umana trae l'aspetto d'un terribile dramma: non è certo che tutti gli uomini si salvano, cioè che raggiungono lo scopo per cui sono stati creati e redenti, anzi è certo che non tutti si salvano.
Questa verità, presente allo spirito di S. Agostino insieme all'universalità della redenzione, corre per tutta la controversia pelagiana e ne comanda, insieme a quella, gli atteggiamenti e lo sviluppo. Essa è ricordata al vescovo d'Ippona e imposta alla meditazione di lui da tre considerazioni:
a) primo, non tutti gli uomini hanno la fede, ma senza la fede è impossibile piacere a Dio;
b) secondo, non tutti i bambini ricevono il battesimo, ma i bambini senza battesimo non si salvano;
c) terzo, nel giudizio universale si avranno due schiere, e per tutta l'eternità ci saranno gli opposti destini di due città.
C'è appena bisogno di notare che queste considerazioni sono di ordine teologico. Per la prima S. Agostino si appella alle parole di S. Paolo: non omnium est fides 91. Per l'altra ritiene fermamente che appartenga alla fede cattolica: "non voler credere, né dire né insegnare, scrive a Vincenzo Vittore, che i fanciulli prevenuti dalla morte prima di essere battezzati possano pervenire alla remissione del peccato originale, se vuoi essere cattolico" 92. In quanto poi alla terza, ha esposto largamente i debiti fines delle due città, difendendo l'escatologia cattolica contro il millenarismo e contro l'origenismo 93.
Ma da questa indiscutibile verità nascono per S. Agostino due grossi problemi, uno esegetico ed uno teologico. Esaminiamoli brevemente tutti e due. Il problema esegetico consiste nell'interpretazione di alcuni passi scritturali dal significato apertamente universalistico. In questa interpretazione si susseguono diversi momenti.
Il primo riguarda quei testi dove l'Apostolo stabilisce il parallelismo tra Adamo e Gesù Cristo, due principalmente: Sicut per unius delictum in omnes homines in condemnationem, sic et per unius iustitiam in omnes homines in iustificationem vitae 94; il secondo: Sicut in Adam omnes moriuntur ita et in Christo omnes vivificabuntur 95.
La difficoltà è ovvia: se non tutti si salvano, come si può dire che tutti son giustificati e vivificati da Cristo? Se poi il secondo omnes ha un significato particolaristico perché non anche il primo? In ogni caso, qual è il valore del parallelismo paolino tra Adamo e Cristo, se tutti nascono peccatori da Adamo e non tutti sono vivificati da Cristo?
Per i pelagiani la risposta era facile. Essi ragionavano presso a poco così: come l'omnes in iustificationem vitae non si può intendere di tutti ma solo di quelli che credono in Cristo, così l'omnes in condemnationem non si deve intendere di tutti, ma solo di quelli che imitano Adamo. È la tesi, come ognun vede, del peccato originale trasfuso per imitazione, non per propagazione, tesi che costituisce il cardine dell'eresia di Pelagio.
S. Agostino, che non poteva accettare questa conclusione, si trovava nella necessità o di rinunziare al valore probativo dei testi paolini o di dare ad essi una spiegazione, la quale, pur ammettendo un senso restrittivo nell'omnes riguardante Gesù Cristo, salvasse il parallelismo tra Gesù Cristo ed Adamo, e con ciò salvasse l'argomento a favore del peccato originale. Naturalmente il vescovo d'Ippona s'appigliò al secondo partito e spiegò il parallelismo tra il primo ed il secondo Adamo non sul piano dell'universalità numerica, dove il parallelo non c'è, ma sul piano della causalità, la quale essendo esclusiva da una parte come dall'altra permette di stabilire tra l'una e l'altra un'eguaglianza: Sicut nullius carnalis generatio nisi per Adam, sic spiritualis nullius nisi per Christum 96; ed ancora: Sicut sine Adam nullus ad mortem, ita sine Christo nullus ad vitam 97; e nei discorsi al popolo: Quomodo omnes et omnes? Quia nemo ad mortem nisi per Adam, nemo ad vitam nisi per Christum 98.
Per rendere ragione di questa esegesi, S. Agostino ricorre alle regole del linguaggio umano e porta l'esempio dell'unica ostetrica e dell'unico maestro di scuola in un paese, dei quali si può ben dire - e si dice - che quella omnes excipit e questo omnes docet non perché di fatto tutti vadano a scuola, ma perché come non nasce nessuno che non sia raccolto dall'unica ostetrica, così nessuno impara le lettere che non sia istruito dall'unico maestro 99.
Questa interpretazione che dà al testo paolino un significato universalistico nella prima parte e uno particolaristico nella seconda, pur salvando il parallelismo tra i due termini, fu proposta da S. Agostino intorno al 412 nel primo libro della prima opera contro i pelagiani. Da allora in poi non subì mutazioni, e la ritroviamo, quasi con le stesse parole e con gli stessi esempi, in molte opere agostiniane 100.
Ma ciò non gl'impedì di mantenere ferma l'universalità della redenzione e d'inculcarla a prova e a sostegno dell'universalità del peccato originale. Anzi non gl'impedì d'interpretare in senso universalistico un altro testo paolino, quello che proclama la volontà divina che tutti gli uomini si salvino, (1 Tim 2, 4).
Il celebre testo che proclama l'universalismo della vocazione cristiana alla salvezza ricorre la prima volta tra le opere antipelagiane di S. Agostino nel De spiritu et littera, che è la seconda in ordine di tempo, anch'essa, come la prima, del 412. Ricorre nel seguente contesto.
Partendo dal presupposto che non tutti hanno la fede, S. Agostino riprende una questione già toccata nell'opera precedente 101 e si chiede da dove ci venga la volontà di credere. Se dalla natura, com'è che non tutti credono quando uno solo è il Dio creatore di tutti? Se poi è un dono di Dio, com'è che non lo ricevono tutti, quando Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e raggiungano la cognizione della verità? La risposta è che la volontà di credere è un dono di Dio, ma un dono che non toglie la nostra libertà.
In quanto al testo paolino, è vero che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi, non sic tamen ut eis adimat liberum arbitrium, quo vel bene vel male utentes iustissime iudicentur. In questo caso il divino volere è frustrabile dall'uomo: infatti gli infedeli contra voluntatem Dei faciunt cum eius Evangelio non credunt; ma ciò non toglie che la volontà divina sia sempre invitta; perché Dio e vuole che tutti credano e vuole che quelli che ricusano di credere subiscano la pena della loro infedeltà. È un aut aut a cui nessuno può sfuggire: ille igitur reus erit ad damnationem sub potestate eius, qui contempserit ad credendum misericordiam eius 102.
Tutto ciò riguarda libertà e grazia considerate in se stesse, riguarda la volontà divina frustrabile, per un aspetto, dall'uomo, e quindi volontà condizionata. Per ciò invece che spetta la volontà divina assoluta, cioè la scelta delle grazie che l'uomo segue infallibilmente in luogo di grazie che respingerebbe - cur illi ita suadeatur ut persuadeatur, illi autem non ita - S. Agostino s'inchina davanti alla profondità del mistero, pago di ricordare che non può esserci ingiustizia presso Dio 103.
Questo il testo e il contesto d'un passo agostiniano piuttosto discusso. Molti v'insistono troppo esclusivamente - bisogna riconoscerlo - per dimostrare che S. Agostino non ha negato la volontà salvifica universale; altri non gli riconoscono alcun valore probativo. Il Rottmanner lo ignora affatto perché anteriore al 418; qualcuno, che segue il Rottmanner da vicino, ci rimanda all'interpretazione del testo paolino nelle opere posteriori; qualche altro ci vede solo la diversa reazione dei popoli alla predicazione del vangelo 104.
Ma la spiegazione più singolare, e insieme più radicale, l'aveva data Giansenio. Per il vescovo di Ypres nel testo in discussione S. Agostino non parla in nome proprio, ma in nome di Pelagio; quindi nelle sue parole non dobbiamo cercare la sua opinione, bensì quella degli avversari 105.
Ma che S. Agostino esprima l'opinione degli avversari e non la sua, non v'è traccia nel testo e nel contesto e non sapremmo dire da dove Giansenio abbia tratto la sua spiegazione.
A nostro parere questo passo resta una testimonianza dell'interpretazione universalistica data dal vescovo d'Ippona al testo di S. Paolo (1 Tim 2, 4), una testimonianza che acquista un valore particolare da questi motivi:
a) viene dopo l'interpretazione particolaristica di altri passi scritturali che pure hanno un suono universalistico;
b) è data in un momento in cui S. Agostino ha presente alla mente il mistero della predestinazione divina, che sceglie per alcuni, e non per tutti, le grazie cui vanno congiunte infallibilmente la fede e la salvezza;
c) non è stata attenuata o corretta nelle Ritrattazioni, scritte sul finir della vita con evidente preoccupazione antipelagiana.
Dei tre motivi ameremmo insistere sul secondo. Se nello stesso contesto S. Agostino dà l'interpretazione universalistica del testo di S. Paolo e accenna all'elezione divina della grazia per cui si salvano certissimamente quelli che si salvano, vuol dire che quella interpretazione non è casuale, ma voluta e cosciente; vuol dire che tra l'universalismo dell'una e il particolarismo dell'altra S. Agostino non ha visto una contraddizione, ma solo i termini di un mistero su cui non presume avanzare soluzioni. Dio vuole tutti salvi, ma non per tutti sceglie quelle grazie che sostengono infallibilmente la debolezza umana e la traggono a salvezza (grazie efficaci). Nel contesto del passo in discussione è contenuto implicitamente un accenno alla volontà divina condizionata ed assoluta: la prima espressa nelle parole di S. Paolo, la seconda nella scelta divina delle grazie che comportano non solo la suasio, ma la persuasio.
Ciò detto per rispondere a coloro che troppo sbrigativamente si liberano del nostro testo, si deve aggiungere che l'insistenza su di esso di alcuni della parte opposta, rivela una preoccupazione che, a nostro parere, non è giustificata: quella di non trovare in S. Agostino un passo che interpreti il testo di S. Paolo come è solita interpretarlo la teologia moderna. Anche se un tale passo non ci fosse, non per questo cadrebbe il sostegno della tesi sulla volontà salvifica universale, perché questa tesi non si raccomanda, nella dottrina agostiniana, all'esegesi di quest'unico testo, ma a quella dei molti testi che predicano l'universalità della redenzione. Non deve perciò indurre a false conclusioni il trovare che S. Agostino propone di questo testo interpretazioni restrittive.
Egli infatti, a un certo momento, applica a questo testo l'interpretazione restrittiva che aveva dato di altri, di quelli precisamente che hanno in comune con esso il suono apertamente universalistico. Gliene offrirono occasione i pelagiani, i quali abusavano di questo testo per negare la gratuità della grazia e ridurre la predestinazione alla pura prescienza 106. S. Agostino volle togliere loro dalle mani anche quest'arma; si studiò, quindi, di dimostrare che l'interpretazione universalistica del testo paolino non è necessaria né l'unica vera.
Ne abbiamo la prima eco nel Contra Iulianum, che è del 421. All'avversario che lo citava per concludere che la grazia ci viene data secondo i nostri meriti (il merito di chiedere, cercare e bussare presso Colui che vuole che tutti gli uomini si salvino), S. Agostino, addotto l'esempio dei bambini, risponde: "Perché non intendere questo detto: Dio vuole che tutti uomini si salvino e raggiungano la cognizione della verità, come intendiamo quell'altro detto dello stesso Apostolo: per l'opera di giustizia di uno solo perviene a tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita?" 107.
Il ragionamento è questo: omnes et omnes, egli dice; c'è l'omnes nel primo testo, c'è l'omnes nel secondo; ma se il secondo, per ragioni di analogia della fede, lo intendiamo in senso particolaristico, perché non anche il primo?
In realtà S. Agostino si studia di dimostrare che si può intenderlo in senso restrittivo come in senso restrittivo intendiamo questi altri testi della S. Scrittura: (Rom 5, 18): per unius iustitiam in omnes homines in iustificationem vitae; (1 Cor 15, 22), omnes in Christo vivificabuntur 108; (Giov 1, 9), qui illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum 109.
In altre parole S. Agostino, dopo il 421, applica alla (1 Tim 2, 4), come interpretazione possibile, quella stessa interpretazione che quasi 10 anni prima, all'inizio della controversia, aveva dato a questi altri testi scritturali. La diversità è tutta nella diversa considerazione della volontà divina, non più intesa come volontà condizionata, che il libero arbitrio, può, per un aspetto, frustrare; ma come volontà assoluta, che si compie infallibilmente.
Ciò che guida questo cambiamento di esegesi è la considerazione del contrasto tra un testo dal suono apertamente universalistico e il fatto che non tutti si salvano, tra cui - caso specifico - i bambini che muoiono senza battesimo: la stessa considerazione aveva guidato, come abbiamo visto, l'esegesi degli altri testi dallo stesso significato universalistico.
S. Agostino sottolinea appunto, particolarmente nell'ultimo periodo, questo contrasto 110 e ne conclude che il testo scritturale si può intendere ragionevolmente in più modi - multis quidem modis intelligi potest 111 -, mentre la volontà divina (assoluta) non ammette che una interpretazione: è l'omnipotente e sempre invitta 112.
Questa, per concludere, l'interpretazione agostiniana del celebre testo paolino. Dopo il 421 c'è stato, è vero, un cambiamento; ma è stato un cambiamento di esegesi, non di teologia, un cambiamento che lascia intatta e l'interpretazione data al testo nel 412 e la posizione teologica sulla volontà divina (condizionata) di salvare tutti gli uomini. Questa, contrariamente alla teologia moderna che insiste troppo esclusivamente sul testo della (1 Tim 2, 4), per S. Agostino è ancorata (lo diciamo ancora una volta riassumendo) all'universalità della morte di Cristo, che ha redento anche Giuda, al nome santissimo di Gesù, che è Gesù per tutti, anche per i bambini; all'ufficio di Giudice che, nei riguardi degli uomini, ha in Cristo la stessa estensione di quello di Redentore.
Se questa distinzione tra esegesi d'un passo scritturale e posizione teologica di fondo fosse stata tenuta presente, pensiamo che certe critiche o certe lodi - immeritate le une e le altre - sarebbero state risparmiate al vescovo d'Ippona.
Ma non vorremmo terminare queste note senza dedicare un accenno al problema speculativo che nasce per S. Agostino - e non per lui solo - dall'insegnamento della fede intorno agli eterni destini delle due città; insegnamento che l'acuta intelligenza del vescovo d'Ippona considera alla luce di due grandi principi.
L'uno, di portata metafisica, riguarda l'onnipotenza del volere divino che può preservare dal male o cambiare dal male in bene, senza scapito della nostra libertà, ogni volere umano. S. Agostino ne è tanto convinto - e non si sa chi possa contraddirlo - da giudicare sacrilego e insensato chiunque osasse dubitarne 113. Da questo principio, che ha le sue radici nell'ineffabile trascendenza divina, proviene la certezza che Dio, nel tesoro della sua sapienza, ha in serbo per tutti, anche se non per tutti ne fa uso, grazie efficacissime che nessun cuore, per quanto duro, respinge, perché son tali da togliere appunto, anzitutto, la durezza del cuore 114. Non già che Dio induca gli uomini a credere contro il loro volere, ma opera in modo che il non volere si muti in volere: non ut homines, quod fieri non potest, nolentes credant, sed ut volentes ex nolentibus fiant 115.
Il secondo principio, invece, è di portata teologica e riguarda la gratuità della grazia e, quindi, della vita eterna. La gratuità della grazia è, com'è noto, una tesi fondamentale che S. Agostino difende instancabilmente contro i pelagiani e i semipelagiani. Agli uni dimostra la gratuità della giustificazione e la nozione cattolica del merito; agli altri la gratuità della fede, anzi del primo desiderio di avere la fede, e della perseveranza finale 116.
Si tratta, per usare una terminologia scolastica, di una gratuità generica insieme e specifica. Infatti questi doni - ci riferiamo prevalentemente al dono della perseveranza infallibilmente legato alla salvezza - sono gratuiti non solo perché provenienti dalla redenzione di Cristo, che è per eccellenza l'opera della misericordia - infatti da questa stessa fonte provengono anche le grazie che ricevono quelli che non si salvano -, ma sono gratuiti, in oltre, perché speciali, cioè, perché date ad alcuni (gli eletti) a differenza di altri (i non eletti), come dimostra appunto l'esistenza di quelli che non si salvano 117.
Vista dalla luce di questi principi la sorte tanto diversa, ma egualmente eterna, delle due città, appare piena di mistero. È il mistero della predestinazione. Se Dio può, salva la nostra libertà, preservare dal male o mutare dal male al bene ogni volere umano, perché non si serve di questo potere a favore di tutti gli uomini, che pur son tutti creature sue? Se nessuno si salva che non abbia ricevuto i doni della fede e della perseveranza finale, perché non tutti li ricevono, quando Cristo è morto perché tutti si salvino?
Il problema è formidabile, e diventa spesso, per gli spiriti pensosi, angoscioso. S. Agostino, acuto, pensatore ed animo sensibilissimo, lo sente e ne soffre 118; ma trova rifugio contro gli smarrimenti della ragione nel porto sicuro della fede 119. Secondo i dettami della fede egli fissa, infatti, i termini del mistero, ne inculca la profondità, davanti a cui bisogna inchinarsi adorando, e ne spiega, indefessamente, la fecondità per la vita dello spirito.
a) Termini del mistero. Possiamo riassumerli così: amore divino verso tutti gli uomini e predilezione verso gli eletti; colpevolezza di quelli che si perdono e dovere di ringraziare Dio, alla cui misericordiosa elezione debbono la salvezza, da parte di quelli che si salvano. Non c'è bisogno di dire che S. Agostino, a causa della controversia in cui era impegnato, ha insistito maggiormente nel secondo termine dei due binomi, ma non ha dimenticato né tanto meno negato il primo.
Sull'amore di Dio verso tutti gli uomini basti quel che s'è detto sull'universalità della redenzione. Qui possiamo aggiungere una bella testimonianza del De correptione et gratia, dove, verso la fine, si legge: Et quis magis dilexit infirmos, quam ille qui pro omnibus est factus infirmus, et pro omnibus ex ipsa infirmitate crucifixus? 120.
In quanto alla colpevolezza di quelli che si perdono, i quali non hanno perciò diritto di menare lamenti contro Dio, si potrebbero citare quei motivi, assai frequenti nelle opere antipelagiane, che riguardano il peccato, che Dio conosce ma non causa 121, i comandamenti divini, che non sono mai impossibili alle forze della grazia impetrata dalla preghiera 122, l'accecamento del peccatore, che è opera del peccatore stesso e non di Dio 123, la condanna divina, che presuppone sempre, necessariamente, la colpa.
Basterà riferirsi alla lettera 194, quella, per intendersi, compresa male dai monaci di Adrumetoe non molto meglio da alcuni critici moderni. Vi si legge: "...ogni peccatore è inescusabile o a causa del peccato originale o a causa dei peccati personali che ha aggiunto a quello originale... Benché dunque Dio faccia i vasi di ira in perdizione per manifestare l'ira sua e dimostrare la sua potenza 124, con la quale si serve in bene anche dei cattivi... tuttavia in questi stessi vasi di ira... destinati a causa del loro peccato al supplizio, Dio può condannare l'iniquità, che la ragione giustamente riprova, ma non causarla. Come, infatti, la natura umana, che senza dubbio è degna di lode, dipende dalla volontà di Dio, così la colpa, che secondo tutti è degna di condanna, dipende dalla volontà dell'uomo" 125.
Citeremo poi un altro testo, che ci pare poco conosciuto, nel quale le due facce del mistero viste, per così dire, a distanza ravvicinata, prendono un particolare rilievo. "Noi saremo loro (ai pelagiani) di certo più utili, scrive S. Agostino all'amico S. Paolino da Nola, se pregheremo perché si correggano, in modo che con tutto il loro bell'ingegno non periscano... Né dobbiamo desistere dal pregare per il fatto che, se non si correggono, la colpa è loro - eorum imputandum est voluntati -...Anche quelli, infatti, ai quali questi (i pelagiani) nella questione che ci tiene occupati son tanto vicini, dei quali dice l'Apostolo che misconoscendo la giustizia di Dio e volendo stabilire la propria non si sottomettono alla giustizia di Dio, (Rom 10, 3), non credevano per colpa della loro propria volontà... eppure, non bastando la volontà da sola a muoversi verso la fede... secondo le parole del Signore: nessuno può venire a me, se non gli è dato dal Padre (Giov 6, 65), l'Apostolo, dopo aver predicato istantemente il Vangelo, reputa d'aver fatto poco se, in oltre, non prega per loro affinché abbiano il dono della fede...." S. Agostino conclude dicendo: Oremus ergo pro illis, sancte frater 126.
Chi non crede, non crede per propria colpa, eppure dobbiamo pregare per gli increduli perché ricevano da Dio il dono della fede.
Due facce del mistero, dicevamo, di cui però una non può ripiegarsi sull'altra quasi fosse il rovescio di essa. Per questo S. Agostino a chi, partendo dalla responsabilità dell'uomo nel peccato, pretendeva ascrivere all'uomo la propria salvezza, risponde che la salvezza eterna è dovuta alla misericordia di Dio che prepara fin dall'eternità i benefici quibus certissime liberantur quicumque liberantur 127; a quelli poi, i quali, considerando i benefici preparati da Dio per gli eletti, intendevano riversare su Dio stesso la causa del peccato e della perdizione di coloro che non ricevono questi benefici, risponde con energia che il peccato e la perdizione sono esclusivamente nelle mani dell'uomo. Voluntate sua cadit qui cadit; et voluntate Dei stat qui stat 128. Con ciò il mistero rimane; ma gli errori, almeno, sono stati evitati.
b) Senso del mistero. Il mistero rimane, e S. Agostino s'inchina volentieri avanti ad esso, lasciando ad altri, se mai, la presunzione dell'indagine. A lui basta il richiamo tranquillante alla trascendenza divina, i cui abissi sono insondabili, e alla giustizia divina, i cui giudizi sono spesso occulti; ma ingiusti mai. L'un richiamo e l'altro trovano espressione nelle parole di S. Paolo che tornano tante volte nel labbro dei vescovo d'Ippona: O altitudo divitiarum...! e, Numquid iniquitas apud Deum? 129.
Va rilevato però che il richiamo alla giustizia divina non è per S. A, fonte di terrore, ma di tranquillità e di luce. La giustizia divina non può essere crudele, come la grazia non può essere ingiusta 130; ma la giustizia sarebbe crudele se colpisse l'innocente. Questa esigenza di giustizia indusse S. Agostino ad illustrare la presente economia della grazia - l'esistenza degli eletti e dei reprobi - con la dottrina del peccato originale, che fa del genere umano, secondo la sua forte espressione, una massa damnata, che Dio avrebbe potuto, senza ingiustizia, abbandonare a se stessa.
Questo ricorso al peccato originale non esaspera; ma, se mai, addolcisce il problema della predestinazione 131, che è certo un mistero di misericordia e di giustizia, per noi occulto com'è occulta, per la sua infinita trascendenza, l'essenza divina, nel cui profondo "s'interna, legato con amore in un volume", quanto il libro dell'universo ci rivela. Ci basti però sapere che Dio è insieme buono e giusto, e perciò potest aliquos sine bonis meritis liberare, quia bonus est; non potest quempiam sine malis meritis damnare, quia iustus est 132.
Dobbiamo aggiungere a questo punto che il costante richiamo di S. Agostino alla misericordia e alla giustizia divina non ha un valore metafisico, quasi volesse dimostrare con argomenti di ragione la necessità che ci siano i reprobi vicino agli eletti, affinché, insieme alla misericordia, si manifesti la giustizia; ha invece, a nostro avviso, un valore soltanto teologico, cioè lo scopo d'illustrare con il ricorso agli attributi divini la verità rivelata intorno all'esistenza delle due città; in altre parole, lo scopo di illuminare con l'esempio d'un mistero naturale (giustizia e misericordia ugualmente infinite) l'oscurità apparentemente sconcertante d'un mistero soprannaturale (reprobi ed eletti). Alla ragione che si domanda smarrita il perché d'una sorte tanto diversa, quando Dio, volendo, potrebbe salvare tutti, S. Agostino replica che una risposta generale si può dare richiamandosi alla misericordia e alla giustizia, ma non una risposta particolare che dia una qualche ragione del perché Dio scelga questi e non quelli 133.
La base di tutto è l'insegnamento della fede: tanto è vero che la dottrina agostiniana della predestinazione è, come si dice, infra lapsaria, cioè basata sulla rivelazione del peccato originale, e parte dal presupposto della presente economia, nella quale, come insegna l'escatologia cristiana, non tutti si salvano.
Riteniamo perciò che non sia meritato il rimprovero, che gli viene fatto, di antropomorfismo 134 o quello, che somiglia troppo a una battuta di spirito di poco buon gusto, d'aver insegnato che Dio ha bisogno dell'inferno per manifestare la sua misericordia.
c) Fecondità spirituale del mistero. La profondità del mistero di fronte al quale, come abbiam detto, S. Agostino s'inchina, non gl'impedisce di vedervi una fonte perenne di vita spirituale.
È noto che la controversia pelagiana aveva uno sfondo profondamente spirituale, anzi toccava il cuore stesso della pietà cristiana. Umiltà, preghiera, fiducia in Dio prendevano nel pelagianesimo un colorito e un tono in contrasto con la praxis e con il sensus Ecclesiae.
Insorgendo contro l'eresia, S. Agostino vuol difendere, è vero, alcune verità fondamentali della fede, ma vuole anche, con esse ed in esse, conservare immutato il volto luminoso e la fragranza della pietà cristiana. Ignora troppo S. Agostino chi ignora quest'aspetto della sua dottrina.
Il vescovo d'Ippona con l'arte consumata del teologo e la sensibilità del mistico dimostra che l'umiltà, la preghiera, la fiducia in Dio sono inseparabili dalla visione teologica dell'uomo e trovano il loro humus nella dottrina della grazia, anzi, in particolare, nella roccaforte della gratuità della grazia, la predestinazione.
S. Agostino ha parlato tanto dell'umiltà cristiana e ne ha parlato tanto bene che qualcuno ha concluso, non senza ragione, che avrebbe diritto al titolo di Doctor humilitatis 135. Ma l'umiltà ha per fondamento la gratuità della grazia, e questa ha per difesa la dottrina della predestinazione. Si riassume in quel qui gloriatur, in Domino glorietur (1 Cor 1, 1) che racchiude lo scopo della Lettera ai Romani 136 ed esprime il volto di tutta la S. Scrittura 137. Se, infatti, la nostra salvezza è opera della misericordia divina; se la fede, la giustificazione, la perseveranza sono doni di Dio, l'uomo non ha di che gloriarsi, ma solo di che ringraziare. Quid autem habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? (1 Cor 4, 7). Lo straordinario influsso che queste parole ebbero nella formazione della dottrina agostiniana sulla grazia 138 dice da solo, senz'altro commento, quale posto vi occupi l'umiltà cristiana. Si aggiunga, poi, la dottrina del merito 139 e quella sulla remissione dei peccati non ancora commessi 140 e si avrà sull'argomento un quadro non troppo incompleto. Non sbaglia chi sostiene che la dottrina agostiniana della grazia è un'appassionante difesa di questa virtù, che, in verità, non è una virtù tra le altre, ma la virtù, quella che apre l'anima alla salvezza e ne determina l'atteggiamento verso Dio.
Riguardo alla preghiera 141, se dicessimo che S. Agostino difendendo la dottrina della grazia difende la dottrina della preghiera, diremmo una cosa nota. I pelagiani, infatti, negando la necessità della grazia, negavano la necessità della preghiera impetratoria; mentre i semipelagiani, negando che l'inizio della fede fosse un dono di Dio, negavano che sia un dono di Dio la preghiera con la quale imploriamo la fede. Contro gli uni e gli altri il Dottore della grazia difende la necessità e la soprannaturalità della preghiera. Ecco un testo che esprime meglio d'ogni altro questi due aspetti: const (at) alia Deum danda etiam non orantibus, sicut initium fidei; alia nonnisi orantibus praeparasse, sicut usque in finem perseverantiam 142. È un principio fondamentale che spiega perché S. Agostino insista tanto sulla necessità della preghiera, preghiera di ognuno per sé e di tutti per ognuno. Pregare per la propria conversione 143, pregare per vincere le tentazioni 144, pregare per ottenere il dono della perseveranza 145. Il Padre nostro come preghiera della perseveranza. È vero che nessuno sarà abbandonato da Dio se non sia egli stesso ad abbandonare Dio; ma appunto per questo preghiamo di non essere indotti in tentazione, affinché ciò non avvenga; e se saremo esauditi, ciò non avverrà, perché Dio non permette che avvenga 146. E come la predestinazione non esclude la preghiera per noi stessi, così non esclude la preghiera per gli altri. Pregare dunque per gli infedeli, secondo l'insegnamento della Chiesa, fortassis enim sic praedestinati sunt, ut nostris orationibus concedantur et accipiant eandem gratiam qua velint atque efficiantur electi 147.
Diremo infine che la dottrina della predestinazione non è per S. Agostino fonte di angustia, ma di fiducia. Infatti questa dottrina, come S. Agostino l'ha esposta e l'ha difesa, c'insegna a riporre in Dio tutta la nostra speranza. Ora non v'è chi non veda che ciò non può essere motivo di angoscia, ma di serenità e di pace. Lungi da voi, esclama il santo Dottore, disperare di voi, perché vi viene comandato di riporre la vostra speranza in Dio e non in voi 148. Egli si meraviglia che ci siano uomini i quali credono di essere più sicuri della loro sorte eterna tenendola nelle proprie mani in luogo di affidarla alle mani onnipotenti di Dio.
Qualcuno dirà: s'io sapessi qual è la volontà di Dio su di me! ma questa volontà mi è incerta. La difficoltà è ovvia. S. Agostino risponde: quid ergo, tua ne tibi voluntas de te ipso certa est? e non temi l'Apostolo che ti dice: chi crede di stare in piedi, veda bene di non cadere (1 Cor 10, 12). Se dunque ambedue le volontà sono incerte, perché affidare la nostra fede, la speranza, la carità alla volontà più debole e non alla volontà più forte? 149.
La conclusione dunque è una sola, consolante e luminosa. S. Agostino la esprime con queste parole che pongono il suggello alla sua dottrina della predestinazione: Tutiores igitur vivimus si totum Deo damus 150.
Siamo ben lontani dal pessimismo agostiniano, triste e senza speranza, di cui di tanto in tanto alcuni, non sapremmo dir come, amano farsi assertori! 151
Le cose, come si vede, stanno un po' diversamente. S. Agostino pastore di anime trae motivo dalla sua dottrina della grazia per combattere tanto la superbia quanto la negligenza e inculcare insieme l'operosità della carità e della preghiera e la fiducia in Dio 152; dando così un esempio di perfetto equilibrio pastorale e teologico. Ai critici moderni è sfuggito, ci pare, questo superiore equilibrio della dottrina agostiniana e, perciò, è sfuggito uno degli aspetti più profondi dell'agostinismo. Non hanno considerato abbastanza che il vescovo d'Ippona ha presenti le diverse facce, apparentemente opposte, del problema e insiste sui punti che gli son parsi, secondo la fede e i principi inconcussi della ragione, essenziali. La sintesi che ci ha offerto non sacrifica la libertà alla grazia, né l'universalità della redenzione alla predilezione di Dio verso gli eletti, né, infine, la responsabilità del peccatore all'esaltazione della misericordia divina nei giusti; ma le afferma e difende ambedue, nonostante la difficoltà di coglierne l'intimo nesso. Una sintesi che dev'essere liberata dall'influenza di troppe false interpretazioni, tenuta al di qua delle discussioni scolastiche e restituita a se stessa. Solo così si potrà darne un giudizio che renda giustizia a un Padre della Chiesa, cui tanto deve la difesa della fede cattolica.
Infatti, di fronte alla visione, certamente grandiosa, che il vescovo d'Ippona ci offre del mistero della predestinazione possiamo domandarci: questa visione è ancora teologicamente valida? E può non essere più valida, dopo quindici secoli, una dottrina che è stata accolta, in sostanza, da tutti i Dottori della Chiesa? Questi interrogativi servono da ponte per passare dalla questione storica, cui abbiamo cercato di dare una qualche risposta, alla questione teologica. Ma noi ci fermiamo. Siamo del parere che valga per certe questioni quanto il nostro Manzoni dice dei libri: basta uno per volta, quando non è d'avanzo.