- S. Agostino e le correnti teologiche eterodosse, in S. Agostino e le grandi correnti della filosofia contemporanea, Tolentino 1954, pp. 221-255.

S. AGOSTINO E LE CORRENTI TEOLOGICHE ETERODOSSE

Potrà sembrare a prima vista che l'argomento sia molto lontano dal tema del Congresso. Ma non lo è, ci pare, se non in apparenza. È noto che le controversie suscitate dalle correnti teologiche eterodosse vergono tutte intorno a un problema che entra nei tessuti della storia e fa della vita umana un dramma, in cui da millenni si dilaniano gli uomini: il male, la libertà, la salvezza. È il problema dell'uomo nella sua concretezza storica, dove si incontrano e cozzano insieme il bene e il male, la verità e l'errore, la realtà e l'ideale. Questo problema tocca nel vivo, come si vede, la tematica della filosofia contemporanea. Senza dire che una parte di questa filosofia non si intende storicamente senza l'influsso di alcune correnti teologiche eterodosse che si richiamano maggiormente a S. Agostino. Si pensi al protestantesimo e al suo influsso nell'esistenzialismo.

Si aggiunga che il problema filosofico del male non trova la piena soluzione se non sul piano teologico: la soluzione dunque teologica di questo problema ha un interesse immediato e un'importanza imprescindibile per la filosofia. Del resto lo studio delle interpretazioni eterodosse date alla dottrina agostiniana, oltre che gettare riflessi di viva luce sulla filosofia del Vescovo d'Ippona, potrà darci un utile insegnamento, invitarci, cioè, ad un paziente lavoro di esegesi indispensabile per cogliere tutta la profondità e l'equilibrio del pensiero agostiniano.

Noi ricorderemo le principali di queste interpretazioni - pelagianesimo, luteranesimo, calvinismo, baianismo, giansenismo - notando di ciascuna l'aspetto che ci è parso fondamentale e più caratteristico, senza addentrarci nella loro genesi storica. A noi interessa mettere in rilievo il punto di deviazione di ciascuno di queste correnti dalla dottrina agostiniana. L'ampiezza del tema ci costringe ad una esposizione quasi schematica, dove è necessario lasciar più posto alle idee che alle parole.

 

Peccato e libertà

I primi a fraintendere il pensiero agostiniano furono i suoi diretti avversari: i pelagiani. È noto che il pelagianesimo adotta una concezione ottimistica della natura umana e finisce in un orgoglioso e duro naturalismo. Le forze morali dell'uomo sono sane ed integre: egli è oggi com'era all'alba della sua creazione, soggetto, oggi come allora, al dolore, alla concupiscenza, alla morte. La concupiscenza non è un disordine, bensì un effectio naturalis et innocens. L'uomo può e deve con le sole sue forze evitare il peccato ed osservare la legge. La sua libertà è in perfetto equilibrio tra il bene e il male: Dio gli ha dato il posse, da lui dipende il velle e l'esse, cioè l'operare. Anzi l'essenza stessa del libero arbitrio sta in questo equilibrio tra il bene e il male. Liberum arbitrium, diceva Giuliano, che fu il grande architetto del pelagianesimo, non est aliud quam possibilitas peccandi et non peccandi 1.

In questa concezione non v'è posto per il peccato originale, per la redenzione di Cristo, per la predestinazione gratuita, per la preghiera e la fiducia in Dio. Dopo aver dato all'uomo il libero arbitrio e la legge, Dio è solo spettatore della vicenda umana, e darà a ciascuno il premio o il castigo secondo i meriti che ciascuno si è conquistato. Non fa meraviglia che un pelagiano considerasse la dottrina di S. Agostino in difesa del peccato originale, della grazia sanante, della predestinazione gratuita, quale un repellente e cupo pessimismo.

Ecco infatti le due gravissime accuse che Giuliano formula contro S. Agostino: a) secondo la dottrina di questi, il peccato originale avrebbe completamente distrutto il libero arbitrio e nessuno avrebbe il potere di compiere il bene, la necessità del peccato domina la volontà degli uomini 2; b) inoltre il peccato originale avrebbe corrotto l'umana natura al punto di renderla insanabile: il battesimo non rimette pienamente i peccati, ne rende gli uomini nuovi, ma li fa in parte figli di Dio e in parte li lascia figli del diavolo 3.

Conoscendo Giuliano, polemista spregiudicato e implacabile, potremmo trascurare queste accuse considerandole come ritorsioni polemiche. Se non che, dopo molti secoli, un altro teologo eterodosso, non più meridionale ma del nord, con una concezione teologica del tutto opposta a quella di Giuliano, credette di ritrovare in S. Agostino la stessa dottrina; con questa differenza che, invece di combatterla, la fece sua. Lasciamo da parte l'evoluzione di Martin Lutero e la sua sincerità: notiamo il fatto che egli dichiara di aver trovato la sua dottrina in S. Agostino. Or questa dottrina è quella stessa, in sostanza, che Giuliano rimproverava al Vescovo d'Ippona. Basterà ricordare di Lutero l'opera De servo arbitrio e la sua dottrina sulla giustificazione. Oggi tra i protestanti le posizioni sono cambiate: molti, particolarmente tra gli storici del domma, son passati dall'accampamento di Lutero a quello di Giuliano, ma l'interpretazione di S. Agostino è restata la stessa. Questa identità di vedute tra uomini tanto diversi nell'indole e nel tempo potrebbe lasciarci perplessi se la dottrina agostiniana non fosse ben chiara. S. Agostino ha rigettato energicamente, come vedremo, le accuse di Giuliano. Ciò nonostante Lutero e i suoi seguaci diedero e dànno ragione a Giuliano e torto a S. Agostino.

Ecco la risposta alla prima accusa: Ma chi di noi asserisce, scrive S. Agostino, che con il peccato del primo uomo è perito il libero arbitrio nel genere umano? La libertà certo è perita a causa del peccato, ma quella che si aveva nel paradiso, cioè habendi plenam cum immortalitate iustitiam; per questo la natura umana ha bisogno della grazia divina secondo la parola del Signore: Si Filius liberaverit vos., tunc vere liberi estis 4.

Se non andiamo errati, queste parole sono la chiave per intendere il pensiero di S. Agostino in materia. Anzitutto ci offrono una preziosa distinzione tra il libero arbitrio e la libertà, distinzione che potremmo tradurre in termini scolastici con libertà di scelta (o d'indifferenza) e libertà morale (o libertà dal male), intendendo, con S. Agostino, per libertà morale l'energia interiore della volontà che supera gli ostacoli che ne impediscono il conseguimento del fine o, in un senso più alto, l'assenza stessa di questi ostacoli.

S. Agostino si è fatto paladino di questa libertà e ne è stato il grande cantore. In essa egli vede il segreto della perfezione umana, il progressivo ridursi e, finalmente, lo svanire del dislivello che c'è nell'uomo tra l'inclinazione naturale e la sua libera volontà o, per usare un'espressione della filosofia contemporanea, tra la volontà volente e la volontà voluta. La radice di questa libertà sta nel volere profondissimo e indistruttibile di essere beati. Ma immutabile è quella libertà della volontà, con la quale l'uomo fu creato ed è creato, e per la quale noi tutti vogliamo essere beati e non possiamo non volerlo 5. Ma questa volontà di beatitudine si dispiega in triplice forma e abbraccia l'essere, il conoscere, l'amare. Or ecco che il male si presenta, anch'esso, sotto triplice forma: il peccato, l'ignoranza, la morte. L'uomo ama la vita e incontra inesorabilmente la morte; cerca la verità e trova spesso, suo malgrado, l'errore; vuole il bene e si lascia sedurre così sovente dalle passioni e cade nella colpa. Questi tre mali lo rendono servo, perché ne impediscono il moto spontaneo della volontà. Solo quando li avrà superati e vinti, sarà veramente quel che vuol essere, cioè beato, e perciò stesso perfettamente libero.

Prima libertas, esclama S. Agostino, est carere crimininibus; la seconda, più grande della prima, è la libertà dalle passioni; poi, finalmente, la libertà plena et perfecta, quando novissima inimica destruetur mors 6.

Appare già da quest'accenno quale sia la prospettiva ordinaria del pensiero agostiniano: quella universalissima della Città di Dio che comprende l'inizio, il percorso e il termine della storia umana. Per questo egli distingue la libertas minor e la libertas maior. La libertas minor fu propria di Adamo e consisteva nel posse non peccare e nel posse non mori; la libertas maior sarà propria dei beati in cielo e consisterà in un bene incomparabilmente maggiore: non posse peccare e non posse mori 7.

Tra questi due termini decorre la vita del genere umano, in cui la libertà non c'è più. Ma quale libertà? Quella di Adamo: habendi plenam cum immortalitate iustitiam. E ciò era perfettamente logico. Adamo, dopo la libertà del posse non peccare e del posse non mori, avrebbe ricevuto, in premio della sua obbedienza, una libertà infinitamente più grande: il non posse peccare e il non posse mori. Era dunque giusto che in castigo della sua disubbidienza, venisse privato anche della libertà di cui era in possesso e che al posse non peccare e al posse non mori seguisse la necessità del peccato e della morte: il non posse recte agere, il non posse non mori 8.

Per il non posse non mori nessuna difficoltà: l'evidenza s'impone. Ma il non posse recte agere, e simili espressioni che sono molto frequenti in S. Agostino, è stato per i pelagiani la pietra di scandalo e per i luterani il cavallo di battaglia. Ma a torto. S. Agostino non dice che il libero arbitrio è stato distrutto dal peccato e reso insanabile; ma solo che ha bisogno di essere sanato. Il che è un'altra cosa. In questo senso il S. Dottore difende tenacemente una sua espressione del De nuptiis et concupiscentia, questa: nemo est liber ad agendum bonum sine adiutorio Dei 9. Giuliano la riportava mutilandola dell'ultimo inciso. E S. Agostino protesta: io non dico che nessuno sia libero di fare il bene, ma che nessuno sia libero di farlo senza lo aiuto di Dio; e conclude: redde verba mea et nihil valebunt tua 10. Altrove aveva approvato senza riserve le parole di S. Girolamo che gli venivano opposte da Pelagio: Dio ci ha creati, con il libero arbitrio e non siamo tirati dalla necessità né alla virtù né al vizio. Altrimenti non c'è nemmeno la corona dove c'è la necessità. S. Agostino commenta: chi non riconosce giuste queste parole? chi non le accetta con tutto il cuore? chi oserà negare che la natura umana sia stata creata altrimenti? Ma soggiunge: Ma la ragione per la quale nell'agire con rettitudine manca ogni vincolo di necessità, è perché c'è la libertà della carità 11.

La controversia tra S. Agostino e i Pelagiani non era sul libero arbitrio, ma sulla necessità della grazia. Liberum itaque in hominibus esse arbitrium,... utrique dicimus; non hinc estis Caelestiani et Pelagiani: liberum autem esse quemquam ad agendum bonum sine auditorio Dei .... vos dicitis; hinc estis Caelestiani et Pelagiani 12. In una parola, S. Agostino difende la necessità della grazia per osservare la legge divina e per compiere opere soprannaturalmente buone; difende, cioè, una dottrina che la ragione invoca e la fede cattolica insegna: nient'altro.

Rileggiamo ora il testo che suscito lo sdegno di Giuliano: E il libero arbitrio, diventato schiavo, non vale che a peccare. Le parole son dure e sembrano racchiudere tutta la dottrina luterana; ma il S. Dottore continua: Per la giustizia invece non vale, se non è liberato e aiutato da Dio 13. E queste parole equivalgono a quelle altre: Che per il peccato di Adamo sia sparito dalla natura umana il libero arbitrio non lo diciamo, ma esso negli uomini soggetti al diavolo vale a peccare, non vale invece a vivere bene e piamente, se la stessa volontà dell'uomo non è stata liberata per grazia di Dio e aiutata a fare ogni bene nell'agire, nel parlare, nel pensar 14. II testo si commenta da sé: non abbiamo perduto il libero arbitrio, ma la possibilità di evitare il peccato e la possibilità di compiere opere degne della vita eterna - bene pieque vivere -; onde la necessità della grazia che scolasticamente potremmo chiamare sanante ed elevante.

Sull'argomento che ci interessa può restare aperta, tutt'al più, la questione disputata tra i teologi: se in ogni azione naturalmente buona dobbiamo vedere un influsso della grazia divina. Ma a questo proposito dobbiamo rilevare che la dottrina agostiniana si muove sul piano storico, non su quello teoretico ed astratto. Ora, storicamente parlando, il fine ultimo degli uomini non è che uno: la beatitudine soprannaturale. Di conseguenza le virtù che non conducono a questo fine non sono vere virtù. Da qui l'inanità della distinzione di Giuliano tra virtù sterili e virtù fruttuose, che S. Agostino rigetta 15.

Portando la discussione sul piano filosofico, che è quello degli scolastici, bisognerà andar molto cauti. S. Agostino ci ricorderebbe anzitutto ciò che fece osservare a Giuliano, che le virtù si distinguono dai vizi non solo per l'oggetto ma anche per il fine 16. Molte opere che sembrano buone non lo sono, perché, se è buono il loro oggetto, non è retto il loro fine. Dopo questa osservazione, ci farebbe notare che non c'è nessun uomo, per quanto scellerato, che non compia qualche opera buona in vita sua; aggiungendo subito, però, che, se si guarda al fine per cui queste opere vengon fatte, sarebbe difficile trovarne che meritino la lode e la difesa dovute alla giustizia 17.

 

Giustificazione

Ma bastino questi brevissimi cenni. Preme passare al secondo capo d'accusa che Giuliano muove contro S. Agostino, quello che costituisce, in fondo, l'essenza della dottrina luterana sulla giustificazione: il battesimo non rimette i peccati né rende gli uomini nuovi. La risposta di S. Agostino è più energica, se si potesse dire,di quella che abbiamo ascoltata poc'anzi. Costoro mentiscono, insidiano, cavillano. Non è questo che noi diciamo... Il battesimo dunque lava, sì, da tutti i peccati, assolutamente da tutti.. 18. Ma egli fa un'importante distinzione, che Giuliano non volle mai capire; una distinzione tra la remissione dei peccati e la regenerazione o il rinnovamento interiore dell'uomo. Altro è infatti non aver più la febbre, altro rimettersi dalla debolezza che la febbre ha causata; altro tirar via una spina dalla ferita, altro sanar la ferita che la spina ha prodotta 19. La remissione dei peccati è piena e totale - tota et plena, plena et perfecta 20 - non così il rinnovamento. Rimesso il reato della colpa, l'uomo viene restituito all'innocenza, poiché, spiega S. Agostino, tra reato e innocenza v'è la stessa opposizione che corre tra l'iniquità e la giustizia 21. Chi non è reo è innocente; non avere il peccato altro non significa che non esser reo di peccato 22.

In quanto al nostro rinnovamento in Cristo le cose corrono un po' diversamente: si compie in modo progressivo, e non sarà totale se non alla fine della vita, anzi alla fine dei tempi. Per capire queste affermazioni, bisogna fare un'altra distinzione; distinguere, cioè, tra la parte superiore dell'anima, la mens, che aderisce a Dio, e le potenze sensibili dell'anima stessa è il corpo a cui sono legate la mens

viene rinnovata nel battesimo, non così la sensibilità e la corruttibilità del corpo. In altre parole, un rinnovamento totale importerebbe il ritorno allo stato di Adamo prima del peccato, con la filiazione adottiva, l'immunità dalla concupiscenza e l'immunità dalla morte. Ora la giustificazione ci restituisce il primo dei doni, non gli alti due. Resta l'infirmitas, cioè la concupiscenza che è un campo di lotte continue e un'occasione di quotidiani progressi; resta la mortalitas, cioè il corpo corruttibile che appesantisce il volo dell'anima.

Se il battesimo, oltre la piena e totale remissione della colpa, conferisse anche, immediatamente, il pieno e totale rinnovamento interiore, non si capirebbe il precetto di rinnovarsi ogni giorno nello spirito: chi deve rinnovarsi, non è ancora integralmente nuovo 23. Possediamo dunque, in virtù del battesimo, le primizie dello spirito, per cui siamo in realtà figli di Dio; ma a causa della concupiscenza e della morte siamo ancora figli di questo secolo; salvi sì, ma nella speranza 24.

La giustificazione ha in S. Agostino un significato molto più vasto e più complesso che non negli scolastici. Questi si domandano se la giustificazione si compia in istanti: la risposta affermativa dipende dall'identità che essi stabiliscono tra giustificazione e infusione della grazia 25. Per S. Agostino la questione non avrebbe senso; perché, per lui, la giustificazione, in quanto dice rinnovamento interiore, non importa soltanto l'infusione della grazia, ma un progressivo liberarsi dal male; dura, quindi, per tutta la vita, e non sarà perfetta che dopo la resurrezione della carne, quando il battesimo - si noti questo particolare - sortirà pienamente il suo effetto 26. La concezione agostiniana è universale ed escatologica: egli vede l'individuo inserito nell'umanità e proiettato nell'arco della storia, e lo dichiara rigenerato e rinnovato, in senso pieno, solo quando avrà raggiunto la libertà da tutte le tristi conseguenze del peccato d'origine 27. Così il concetto di giustificazione diventa correlativo a quello di libertà morale. Giustificazione e liberazione si corrispondono: la piena giustificazione costituisce la piena liberazione dal male. Non avvertire il diverso aspetto dal quale S. Agostino e gli scolastici guardano il problema della giustificazione può portare - e ha portato - a non lievi errori di valutazione della dottrina dell'Ipponate.

Ma andiamo avanti; e ci si consenta di insistere ancora un poco nel proposito di vedere sino in fondo nel pensiero agostiniano. Giova domandarsi che cosa importi per S. Agostino il rinnovamento, operato dal battesimo, della mens, che è la parte più alta dell'anima 28. Qualcuno ha pensato che si tratti d'un rinnovamento morale attraverso la fede e la carità, d'un aumento, cioè, di energie che permettano al cristiano di resistere alle tentazioni della concupiscenza e di vivere secondo lo spirito 29.

Noi non sappiamo convincerci che in S. Agostino ci sia soltanto questo. La giustificazione cristiana, senza dubbio, importa un aumento di forze morali, ci dà quella grande libertà - per usare un'espressione agostiniana - che ci rende capaci di vincere il mondo; ma importa anche qualcosa di permanente nell'anima, qualcosa d'immensamente profondo. S. Agostino conosce la dottrina degli abiti 30; ma non se ne serve per esprimere la dottrina della giustificazione. Il suo linguaggio è quello della S. Scrittura. Egli moltiplica le immagini per rendere nel modo migliore la trasformazione operata nel nostro spirito dalla grazia. L'uomo, che è la creatura più eccelsa dell'universo sensibile, quando viene giustificata, ad opera del suo Creatore, dall'empietà, lascia la sua forma deforme, per acquisire una forma bella 31, sorge rinnovato dalla vecchiaia, bello dalla sua deformità, beato dall'infelicità 32.

Per cogliere il significato di queste espressioni bisogna ricordare la dottrina agostiniana dell'immagine di Dio nell'uomo. Questa immagine è stampata immortalmente nella sostanza immortale dell'anima - immortaliter immortalitati eius est insita 33: - il peccato la deforma, la oscura, la logora, la invecchia; la giustificazione la riforma, la illumina, la restaura, la rinnova. Metafore, si dirà. Va bene, ma sotto queste metafore c'è la dottrina metafisica della partecipazione. La giustificazione consiste essenzialmente nella participatione melioris. Ea quae inferiora sunt... meliora fiunt participatione melioris 34. La terra, l'acqua, l'aria diventano migliori partecipando alla luce ed al calore; la creatura razionale, che non ha sopra di sé se non Dio, partecipando alla vita del suo Creatore.

Per chiarire questa dottrina, vorremmo richiamare l'attenzione su tre effetti della giustificazione:

a) L'inabitazione dello Spirito Santo, anche nei bambini che non possono conoscere Dio 35, per cui accade questo fatto mirabile che Dio abita in molti che non lo conoscono e non abita in altri che lo conoscono 36. Qui si tratta evidentemente d'una realtà soprannaturale non solo intrinseca all'uomo, ma anteriore agli atti di conoscenza e di amore; si tratta di qualcosa di permanente nell'anima. Lo Spirito Santo è presente nei bambini in quanto opera in loro, e li rende, attraverso un'occulta e misteriosa azione, templi suoi 37. La grazia che lo Spirito Santo latenter infundit et parvulis nel battesimo 38 non si può capire in senso soltanto morale.

b) La deificazione dell'anima per mezzo della grazia - qui iustificat, ipse deificat 39. Tra giustificazione, deificazione, filiazione adottiva v'è un'intima corrispondenza. Come la giustificazione e la filiazione adottiva non avranno il loro compimento se non nella resurrezione dei corpi così la nostra deificazione non sarà completa, se non quando questa carne mortale, che avete tuttora da Adamo, premia la novità dello Spirito, meriti anch'essa di essere rinnovata e trasfigurata al momento della sua risurrezione; e così tutto l'uomo deificato possa aderire all'eterna e immutabile Verità 40.

c) Notiamo infine un terzo effetto della giustificazione: la vita divina che ci viene partecipata dalla grazia. È un concetto su cui il Vescovo d'Ippona insiste di preferenza. Dio è vita dell'anima, come l'anima è vita del corpo. Egli sa bene che una simile espressione è audace, ma assicura che è vera. Dirò, fratelli, una cosa che vi sembrerà azzardata ma che tuttavia è proprio vera. Due sono le vite dell'uomo: la vita del corpo e la vita dell'anima. Vita del corpo è l'anima; vita dell'anima è Dio. Come muore il corpo se l'anima lo abbandona, così muore l'anima se Dio la abbandona 41. L'anima dà al corpo unità, bellezza, movimento: così Dio all'anima 42. Ognun vede in queste parole la espressione più alta della dottrina sulla partecipazione: Dio che ha in se stesso la vita diviene pure nostra vita quando ne diventiamo comunque partecipi 43.

Bastano questi brevissimi cenni per mostrarci l'ampiezza e la profondità della dottrina agostiniana sulla giustificazione: una dottrina che insiste di preferenza sull'azione vivificante di Dio che penetra interiormente l'anima e la pone come in un contatto vitale col suo Creatore; una dottrina che ha un carattere evidentemente dinamico, che non si ritrova, almeno allo stesso grado, nell'esposizione degli scolastici, i quali si serviranno, per esprimersi, della dottrina aristotelica degli abiti.

Solo c'è da domandarsi come si sia potuti arrivare alle accuse di Giuliano e alle interpretazioni di Lutero.

Le une e le altre son nate, e non andiamo errati, dall'aver frainteso la dottrina agostiniana della concupiscenza. S. Agostino ha combattuto per sostenere contro l'irriducibile Giuliano due asserzioni: a) rimesso con il battesimo il reato della colpa, la concupiscenza non è, propriamente, peccato: quando il S. Dottore la chiama peccato intende peccato vinto e morto 44, come un corpo senz'anima 45; b) la concupiscenza non è un male che dobbiamo sopportare con pazienza, come i mali fisici; bensì un male per cui bisogna gemere di continuo, e che dobbiamo mortificare e debellare: è un male che investe l'ordine morale. In che modo dunque si dice un bene la libidine che, se non le si resiste, spinge e costringe l'uomo a fare il male? 46. Ora Giuliano, mutilando la dottrina del Vescovo d'Ippona, s'è fermato alla seconda affermazione e ha concluso: se la concupiscenza è un male e non è un male fisico, è dunque peccato; e restando la concupiscenza dopo il battesimo, resta con essa anche il peccato. Lo stesso ragionamento ha fatto Lutero. Quanto sia logica questa conclusione può vederlo ognuno; e non era davvero necessario, per evitarla, sostenere, come fanno molti, oggi, nonostante l'evidenza quotidiana delle nostre lotte spirituali, che la concupiscenza sia in se stessa soltanto un male fisico. Bastava conservare, senza mutilazioni, le due asserzioni agostiniane e concludere, come farà S. Bonaventura (e non diversamente S. Tommaso) che la concupiscenza quasi medium tenet inter culpam et poenam 47.

 

Natura e grazia

Le dottrine fondamentali del luteranesimo sul peccato originale e la giustificazione, per le quali, come abbiamo visto, non si può invocare il patrocinio di S. Agostino, a meno che non ci si condanni a travisarne il pensiero, nascono da un presupposto comune, che, accennato appena da Lutero, fu ripreso e messo in rilievo, prima ancora della chiusura dei Concilio di Trento, da Michele Baio.

Per il teologo di Lovanio i doni ricevuti dal primo uomo al momento della creazione - grazia della filiazione divina, immunità dalla concupiscenza e immunità dalla morte - costituivano la sua condizione naturale, appartenevano, cioè, all'integrità della natura umana e gli erano dovuti, com'era dovuta la vista all'occhio e la sanità al corpo; quei doni non elevavano l'uomo da uno stato buono ad un altro migliore, ma da uno stato cattivo all'unico buono: senza di essi l'uomo non potrebbe dirsi immagine di Dio. Come si vede, mentre Pelagio negava il soprannaturale, Baio lo chiude nell'ambito della natura, lo naturalizza, e perciò lo distrugge, togliendolo, non meno radicalmente di Pelagio, che pure intendeva combattere la distinzione tra natura e grazia.

Non occorre dire che Baio pretende interpretare con esattezza il pensiero del Vescovo d'Ippona. Vedremo come questa pretesa sia vana. Intanto diciamo che la posizione teologica di Baio è molto sottile e pericolosa. Essa tocca un problema delicatissimo - relazione tra l'ordine naturale e l'ordine soprannaturale - che resterà sempre vivo nella teologia - si ricordino le controversie su questo punto, che sembrano rinascere di secolo in secolo - e porta la discussione su un piano che non è quello abituale di S. Agostino. La lotta pelagiana si svolgeva circa l'attuale economia della salvezza: peccato originale e redenzione. Difendendo in concreto la necessità della grazia, S. Agostino era portato a mettere in risalto, sul problema che ci interessa, l'aspetto contrario a quello studiato da Baio; vogliam dire non la soprannaturalità, ma la convenienza e l'intimo nesso della grazia con la natura.

Non reca dunque sorpresa che si trovino in S. Agostino testi i quali sembrano suffragare la dottrina baiana. Così vi son testi dove si dice che la vera natura dell'uomo è quella che ebbe Adamo prima del peccato, ipsa enim vere et proprie natura hominis dicitur 48. Vi son testi che farebbero supporre che l'uomo è immagine di Dio solo in forza della grazia 49. V'è, infine, quel principio circa la nozione del male - malum nihil est quam naturalium privatio bonorum 50 - che sembra fatto apposta per offrire il destro a tutte le conclusioni baiane 51.

Tutto questo è vero. Ma Baio - ci limitiamo, per dovere di brevità alla sola questione della grazia - ha avuto il torto di fermarsi alle formule e d'inserirle, con una grave trasposizione, in una prospettiva filosofica che non è la loro. Egli avrebbe dovuto cercare più a fondo nelle pagine del Vescovo d'Ippona; e il genuino pensiero del grande Dottore che sottolinea, sì, l'intimo nesso tra la natura e la grazia, ma nota anche l'infinita trascendenza della grazia sulla natura, non gli sarebbe sfuggito.

Inutile insistere sul primo aspetto del problema: la dottrina agostiniana su questo punto è ricchissima ed è generalmente conosciuta. L'uomo in forza della sua natura capax Dei est. Questo è l'indice della sua grandezza - in quanto è capace e può essere partecipe della natura suprema, è una natura grande 52. Da questa capacitas metafisica che costituisce il fondamentale rinvio della creatura razionale all'Assoluto - fecisti nos ad Te - nasce, sul piano psicologico, l'inquietum est cor nostrum. Perché capax Dei, l'uomo è anche indigens Deo: la sete natural che mai non sazia - direbbe Dante - non può essere appagata se non da Dio 53.

Giova invece insistere nell'altro aspetto del problema - la soprannaturalità della grazia - quello che Baio ha negato appellandosi a S Agostino, e che pure è presente nelle pagine del S. Dottore più di quanto comunemente si creda. Troviamo anzitutto una netta distinzione tra la natura e la grazia. Scrive a proposito degli Angeli: Dio li creò simul in eis et condens naturam et largiens gratiam 54. Qui il primo termine natura evidentemente non è usato in senso storico, come in altri luoghi, ma in senso filosofico; e il raccostamento con l'altro termine grazia ne indica con brevità e chiarezza la distinzione. Distinzione che si chiarisce nel De praedestinatione, dove leggiamo: poter avere la fede, come poter avere la carità, appartiene alla natura degli uomini; ma avere la fede, come avere la carità, appartiene alla grazia dei fedeli 55. Il posse attribuito alla natura e l'habere attribuito alla grazia, ci richiamano alla dottrina agostiniana dell'immagine di Dio nell'uomo.

Baio ha preteso che S. Agostino non conoscesse nell'uomo altra immagine di Dio che quella propria della grazia. Questo è stato il suo errore fondamentale. Eppure nelle Ritrattazioni il S. Dottore aveva premunito i lettori, perché non intendessero in questo senso alcune me frasi 56. L'uomo non è immagine di Dio perché ha la grazia, ma può avere la grazia, perché è immagine di Dio. Quest'immagine consiste appunto nell'esser capaci di accoglier Dio in noi, che è quanto dire nel poter essere elevati fino al possesso di Dio. Eo quippe ipso imago eius est quo eius capax est eiusque particeps esse potest 57. Immagine dunque naturale, perché l'uomo naturalmente uti ratione atque intellectu ad intelligendum Deum potest 58; immagine stampata, come abbiamo notato sopra parlando della giustificazione, nella sostanza immortale dell'anima. Or quest'immagine ha una certa somiglianza con Dio ed è in qualche modo l'espressione del suo volto - altrimenti immagine non sarebbe - ma è, anche, infinitamente lontana dal suo esemplare. Ma chi può spiegare quanta dissomiglianza c'è ora in questo specchio, in questo enigma, in questa imperfetta somiglianza? 59. Studiando questa dissomiglianza, si ha la chiara percezione della misura nella quale S. Agostino ha sottolineato la trascendenza, e quindi la gratuità, della grazia.

Bisognerebbe seguire il S. Dottore nelle mirabili considerazioni metafisiche intorno al nome di Dio. Questo nome Ego sum qui sum è pieno di mistero e ci riempie di sgomento: chi, sia pure in un baleno, ne capisce il significato, si avvede di essere assai più in basso, lontanissimo, enormemente diverso 60. Ci si consenta una citazione un po' lunga, ma chiarificatrice: Ed avresti tu per nome proprio l'essere, chiede S. Agostino a Dio, se tutto quanto è al di fuori di te non si rivelasse realmente, confrontato con te, come non essere? Sì, questo è il tuo nome, ma devi esprimerlo in maniera più chiara. Va' - egli dice - e di' ai figli d'Israele: Colui che è mi ha mandato a voi. Io sono colui che sono: Colui che è mi ha mandato a voi. Grande, davvero grande questo È! Di fronte ad esso che cos'è l'uomo? Di fronte a quel grande È - dico - che cosa è l'uomo, per quanto sia e valga? Chi potrebbe raggiungere quell'essere o divenirne partecipe? Chi potrebbe aspirare o avvicinarsi ad esso? Chi potrebbe presumere di riuscire a ritrovarsi in esso? 61.

Ricordandosi però il S. Dottore che, nonostante l'infinita distanza da Dio, l'uomo desidera giungere fino a Lui,, rileva che il Signore, il quale ha per se un Nomen aeternitatis, si è degnato di avere per noi un Nomen misericordiae 62. Continua infatti: Eppure tu, uomo, non devi disperare nella tua fragilità. Io sono - dice - il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe 63. Se Dio non scendesse, la creatura non potrebbe salire 64. Solo la grazia della filiazione divina - gratuita per definizione - penetrando nelle capacità profondissime dell'anima (immagine naturale) può darci quella configurazione soprannaturale (deificazione) che ci permette di superare l'infinita distanza che ci separa da Dio.

Per cogliere in questa delicata questione la verità nella sua completezza, occorre conservarti; come ha fatto Agostino, i due aspetti apparentemente opposti.

Possiamo concludere con quelle parole delle Confessioni che rilevando, appunto, i due aspetti del problema, mostrano l'atteggiamento dell'anima di fronte a Dio: Timore e ardore mi scuotono: timore, per quanto ne sono dissimile; ardore, per quanto ne sono simile 65. La somiglianza con Dio fonda la somma appetibilità della grazia; la nostra dissomiglianza da Lui ne fonda la somma gratuità.

 

Grazia e libertà

Non era spenta ancora l'eco delle controversie mosse da Baio, che le dottrine baiane vennero riprese con maggiore erudizione e più sottili accorgimenti da un altro teologo di Lovanio: Giansenio. Non è possibile riassumere la dottrina dell'Augustinus di Giansenio, ne accennare alla grande influenza che ha esercitato nel pensiero e nella vita cristiana. Rileveremo soltanto che l'autore credette di aver scoperto in S. Agostino il segreto che gli permetteva di tagliare il nodo gordiano delle interminabili dispute teologiche sulla libertà e la grazia. Il segreto era questo: un atto umano è libero solo che sia volontario; alla libertà - e quindi al merito - si oppone la coazione esterna, ma non la spontaneità o necessità interna dell'atto.

Quale importanza Giansenio annettesse a questa scoperta può giudicarlo facilmente chi scorra le pagine dell'enorme in folio, nel quale il libro VI del tomo III è tutto dedicato a sostener questa tesi attraverso i testi di S. Agostino, dei SS. Padri e degli scolastici. Aveva ragione. Infatti da questa scoperta dipende tutta la dottrina giansenista: il grave problema del come stiano insieme libertà e grazia efficace finalmente è sciolto; ma sciolto perché ... negato. Perita la libertas a necessitate, un crudo determinismo psicologico s'impossessa della vita umana: l'uomo compie necessariamente il male o il bene, secondo che domini in lui la concupiscenza o la grazia, la delettazione terrena o quella celeste. La dottrina di Giansenio sulla predestinazione non è che una conseguenza di questo.

Giansenio non fa che ripetere le parole di S. Agostino, e con tanta abbondanza da sembrare un fedelissimo interprete del Dottore della grazia. Inutile dire delle reazioni all'Augustinus. Alcuni furono tratti in errore. Altri per liberarsi dalle importune argomentazioni di Giansenio preferirono dar torto, più o meno velatamente, a S. Agostino. Quelli che ne presero le difese non seguirono sempre la stessa via. Anche oggi gli studiosi non sono unanimi nel rispondere a Giansenio 66.

Certo, l'argomento non è dei più facili, poiché in S. Agostino non troviamo l'elaborazione teoretica della dottrina sulla libertà, ne l'impostazione generale dei rapporti tra la libertà e la grazia; nondimeno il suo pensiero, per chi lo studi da presso, non è oscuro. Ci pare che gli autori non abbiano avvertito o, per lo meno, non abbiano insistito abbastanza sulla trasportazione compiuta da Giansenio, quando ha interpretato S. Agostino in funzione della problematica scolastica, in funzione, vogliam dire, delle controversie teologiche De auxiliis.

Così egli ha trasferito sul piano della libertà di scelta (o libertà d'indifferenza) tutto ciò che S. Agostino dice sul piano della libertà morale (o libertà dal male). È, in fondo, lo stesso errore che aveva condotto Lutero, come abbiamo visto, a negare, appellandosi a S. Agostino, la permanenza della libertà dopo il peccato d'origine.

Eccone un esempio tipico Scrive S. Agostino: libertas delectat...; delectet et liber es 67. Ebbene, portiamo queste parole sul piano della libertà d'indifferenza, ed avremo una formula felicissima della dottrina giansenista. Difatti Giansenio non nasconde la sua ammirazione per queste parole 68. Lasciamole invece, come esige il contesto immediato e remoto, sul piano della libertà morale (libertà dal male), ed avremo una sublime dottrina, agostiniana e cattolica. In grazia di simili trasposizioni, Giansenio ha potuto esporre il suo pensiero quasi sempre con le parole stesse di S. Agostino. Si è che il Vescovo d'Ippona parla diffusamente della libertà dal male: se n'è fatto il paladino e il cantore, come abbiamo notato. È il problema che maggiormente l'appassiona. Alle forti tinte con cui descrive la schiavitù del peccato, fa riscontro in lui l'inno trionfale alla grazia liberatrice di Cristo. La sua dottrina può dirsi un grandioso commento alle parole di Gesù: Si Filius liberaverit vos, tunc vere liberi estis.

L'anima tanto più è libera quanto più è sana - ipsa enim sanitas est vera libertas 69 - e tanto più è sana quanto più è soggetta alla grazia 70. Donde la conclusione: eris liber si fueris servus; liber peccati, servus iustitiae 71. Non è con la libertà che si consegue la grazia, ma con la grazia la libertà, e tale libertà che assicuri agli eletti la perseveranza nel bene. Non si annulla la libertà con la grazia, ma la si stabilisce: Liberum arbitrium evacuamus per gratiam? Absit: sed magis liberum arbitrium statuimus. Ed ecco la ragione: per gratiam sanatio animae a vitio peccati, per animae sanitatem libertas arbitrii 72. Questa dottrina, esposta drammaticamente nelle pagine delle Confessioni, torna nel De spiritu et littera, serve come da sfondo al De correptione et gratia, costituisce l'epilogo del De civitate Dei, e forma spesso argomento di sermoni al popolo. La prospettiva è sempre quella universalissima della Civitas Dei, nella cui storia emerge e domina l'antitesi tra due tipi di grazia, cui rispondono due tipi di libertà.

Adamo in bonis erat e, ignaro della lotta tra la carne e lo spirito, sua secum pace fruebatur 73: la sua volontà pacificamente libera si trovava nella felice condizione di evitare con estrema facilità il peccato. Ma, perita a causa della colpa d'origine questa beata libertà, la fragilità umana, che ne seguì, ebbe bisogno d'una grazia molto più potente, anche se meno gioconda. Certo è necessaria una libertà maggiore contro tante e tanto forti tentazioni che in paradiso non c'erano, una libertà fortificata e rafforzata dal dono della perseveranza, affinché questo mondo sia vinto con tutte le sue passioni 74. In questo testo, come in tanti altri, libertas sta per energia di volontà, forza interiore, che ci consente di vincere gli amori, i terrori, gli errori del mondo.

Da qui l'antitesi: il primo uomo munito, per dono di grazia, d'una volontà pienamente libera, la fece servire al peccato; i giusti, che nascono con la volontà asservita al peccato, ricevono tanta libertà dalla grazia di Cristo, da non servire più oltre al peccato. Insomma: un forte che cade, e i deboli che vincono; un libero che diventa servo, e dei servi che diventano liberi 75.

È in questo contesto che si deve capire il celebre passo del De correptione et grazia: Dunque si è prestato soccorso alla debolezza della volontà umana così che essa sia mossa dalla grazia divina in maniera indeclinabile e insuperabile 76; dove i due avverbi - indeclinabiliter e insuperabiliter - hanno costituito il cavallo di battaglia dei giansenisti quasi esprimessero l'insuperabilità della grazia rispetto alla volontà; mentre non dicon altro se non che la grazia regge in tal modo la volontà da renderla, nonostante la sua fragilità e 1e molte tentazioni, irremovibile nel bene e insuperabile dal male.

Pure in questo contesto si deve intendere la delectatio victrix, espressione agostiniana che Giansenio, abusandone, ha reso ingiustamente sospetta: non si tratta della grazia vittoriosa contro la volontà, ma della volontà vittoriosa, per mezzo della grazia, contro le tentazioni. Così pure, per finire, in questo contesto bisognerà studiare la famosa distinzione che esprime il diverso tipo di grazia, prima e dopo il peccato: auxilium sine quo non e auxilium quo: il primo dava ad Adamo la beata libertà di poter perseverare; il secondo, più potente, conferisce agli eletti la dolorosa ma invitta libertà di preservare di fatto e, quin4 di giungere alla piena libertà del non posse peccare.

Come si vede, il problema che interessa S. Agostino è sempre lo stesso: l'immunitas a servitute, cioè la libertà del peccato, dall'ignoranza, dalle passioni, dalla morte. Del resto questo era l'argomento principale nella controversia pelagiana: la necessità della grazia per scuotere il giogo del male. Anche la definizione del libero arbitrio the dava Giuliano - possibilitas peccandi et non peccandi - porta la discussione su questo piano. S. Agostino rispondeva: se il poter peccare appartiene alla natura della libertà, non è libero Dio che non può peccare, non son liberi i beati del cielo 77. II poter peccare non è libertà ma servitù. V'è, infatti, una felix necessitas sommamente desiderabile come segno di perfezione suprema: il non posse peccare 78.

Il problema, invece, discusso dai teologi postridentini è un altro, più teoretico, più profondo e, in pratica, molto meno importante del primo, questo: in che modo la grazia, che conferisce alla volontà la libertà dal male ne rispetta la libertà di determinazione o d'indifferenza? L'aver confuso i due problemi ha portato a gravi conseguenze nell'interpretazione della dottrina agostiniana. Si dirà: ma non è stato S. Agostino a confonderli? A questa domanda non si può che dare una risposta negativa, anche se si debba riconoscere che la terminologia di S. Agostino è, in parte, ancora incerta e fluttuante.

Ma per la sostanza del pensiero mi pare che non debba esserci dubbio. Il S. Dottore rileva che la libertà congenita in ogni uomo - quella di voler essere beati - non basta per vivere rettamente, la libertà di una volontà immutabile con la quale voglia e possa agire bene non è così congenita nell'uomo come è congenita in lui la libertà con la quale vuol essere beato 79. V'è dunque un'altra libertà the presiede alla vita umana; e, se chiamiamo la prima in termini scolastici libertas a coactione , dovremmo chiamare la seconda libertas a necessitate.

Inoltre troviamo in S. Agostino una distinzione molto importante tra la virtù in statu patriae e la virtù in statu viae, che chiama rispettivamente virtus maior e virtus minor: questa importa la buona volontà congiunta al potere del contrario, quello, cioè, di avere una volontà cattiva; mentre l'altra importa la buona volontà congiunta all'impossibilità di non averla. Non è dunque vero che non ci sarebbe la virtù in noi, se la volontà cattiva noi non l'avessimo in modo da poterla anche altrimenti avere, ma per il merito di questa virtù minore dovette accedere a noi in premio la virtù maggiore di non avere la volontà cattiva in tal modo da non poterla nemmeno avere 80. Dunque la virtus minor suppone la libertà d'indifferenza e la virtus maior solo la libertà di spontaneità o a coactione.

In fine, il Vescovo d'Ippona ricorda, come cosa a tutti nota, la responsabilità personale nel peccato, responsabilità che la colpa di Adamo ha attenuato, ma non ha distrutto; e ciò tanto nelle opere contro i manichei 81, quanto in quelle contro i pelagiani. Nell'Opus imperfectum contra lulianum scrive: Molti sono appunto i mali che gli uomini fanno e dai quali sarebbe per loro libero astenersi, ma per nessuno è tanto libero quanto lo era per Adamo, che davanti al suo Dio, dal quale era stato creato retto, stava assolutamente puro da qualsiasi vizio 82. Questo paragone tra Adamo e gli uomini dopo il peccato rende inequivocabile il senso di queste parole.

Vi son dunque in S. Agostino tutti i presupposti del problema che interesserà i teologi posteriori - libertà d'indifferenza e grazia efficace -; ma v'è anche il problema stesso, che il S. Dottore ha visto e di fronte al quale s'è come arrestato, abbandonando il suo linguaggio sicuro trionfante, per lasciare il posto a un tono, dimesso e quasi timido. Egli dichiara che la questione di conciliare libertà e grazia è difficilissima e che solo pochi giungono a capirci qualcosa - quaestionem difficillimam et paucis intelligibilem -; e aggiunge che è motivo di profonda angustia per chi tenti di scioglierla, poiché difendendo la grazia sembra che si neghi la libertà e difendendo la libertà si dà l'impressione di negare la grazia 83. Il nodo sta appunto nel metter d'accordo la grazia efficace e la nostra libera scelta. Ecco un testo agostiniano anteriore alla controversia pelagiana: Se io ti ponessi la questione: come può, Dio Padre, attrarre al Figlio gli uomini che ha lasciato liberi, forse la risolveresti con difficoltà. Come li può attirare, infatti, se ha lasciato a tutti la libertà di scegliere? Eppure sono vere tutt'e due le cose, ma solo pochi sono in grado di comprenderlo con l'intelligenza 84.

I termini son precisi; ma il S. Dottore mai si avventura a darcene una soluzione teoretica generale; insiste invece sul fatto: la grazia non esclude la libertà ne la libertà la grazia. Il libero arbitrio, inoltre, non vien soppresso per il fatto che vien aiutato, ma viene aiutato proprio perché non vien soppress 85. A questo scopo scrisse il De gratia et libero arbitrio, dove le due verità - libertà e grazia - trovano la loro espressione nella notissima formula: E' certo che siamo noi a volere, quando vogliamo; ma a fare sì che vogliamo... E' certo che siamo noi a fare, quando facciamo; ma è lui a fare sì che noi facciamo, fornendo forze efficacissime alla volontà 86. Anzi, con tono grave e paterno, ammonisce di mantenere saldi i due termini del problema, anche quando non se ne vede la concordia 87; ammonimento - dobbiamo aggiungere - che molti, purtroppo, non hanno saputo raccogliere.

In quanto al come, il Dottore della grazia preferisce arrestarsi alle soglie del mistero: traitur homo miris modis ut velit 88. Senza dubbio, una mente come la sua, che illumina un problema con il solo modo d'impostarlo, non poteva non lasciarci, in tante pagine che ha dedicate alla grazia, gli elementi indispensabili per tentare una soluzione, nei limiti dell'umana intelligenza, anche di questo problema. Bisogna però saperli raccogliere e coordinare.

Ricordiamo: a) l'onnipotentissima potestas che Dio esercita nella nostra volontà, per cui operando, per così dire, dal di dentro, compie in noi per mezzo di noi il nostro stesso volere: Dio padroneggia le volontà degli uomini più di quanto le possano padroneggiare gli uomini stessi 89; b) l'infirmitas, voluntatis, humanae, causata dal peccato d'origine, che ha bisogno di essere sostenuta, perché non soccomba alle tentazioni, da aiuti maggiori, maioribus donis adiuvanda 90; c) il bonus usus liberae voluntatis, che è anche esso - oltre il posse bene agere - un dono della grazia, anzi il più prezioso, perché nel buon uso della nostra libertà consiste essenzialmente il merito e l'opera della nostra salvezza 91; d) l'inspiratio sanctae dilectionis, in cui consiste principalmente la grazia (attuale), che rende soave ciò che non dilettava e opera nella volontà con la potenza infallibile dell'amore: liberali suavitate amoris 92.

Ci pare che un attento lettore debba fondere insieme questi elementi - senza aggiungervi nulla di eterogeneo - se vuol dare al difficile problema una soluzione che si possa a buon diritto chiamare agostiniana, avvertendo sempre di conservare quel senso del mistero, di cui Agostino è maestro, e che fece difetto a Giansenio, e non a lui solo.

 

Predestinazione

Ma eccoci ad un'altra questione - e sarà l'ultima - dove il senso del mistero è più che mai necessario, perché il mistero stesso si fa più fitto e più drammatico: è il mistero della predestinazione, vale a dire dell'elezione divina che ad alcuni elargisce la grazia onde trarli infallibilmente dal male, mentre permette che altri periscano nel peccato, e passino dal male della colpa al male della pena. La dottrina della predestinazione è il coronamento di quella della grazia. S. Agostino la espose ampiamente negli ultimi anni della sua vita, con il sereno equilibrio del teologo consumato e la visione superiore del contemplativo. Eppure in nessun altro argomento il suo pensiero fu tanto costantemente frainteso come in questo.

Da Gottschalk a Wicleff a Huss a Lutero a Calvino a Giansenio, i predestinaziani hanno invocato concordemente il suo patrocinio. Ma ciò non deve recar meraviglia. La difficoltà, che le parole non possono dissipare, sta nelle cose. La predestinazione è uno di quegli argomenti che, studiato senza la guida infallibile del sensus Ecclesiae, conduce a errori sconcertanti, anche se opposti. Vista da parte delle creature, mette nella tentazione di farla dipendere dalla previsione dei nostri meriti, come fecero i pelagiani; vista, invece , dalla parte di Dio, indurrebbe a credere che la dannazione alla pena eterna sia il contrapposto della predestinazione alla vita eterna: come questa è anteriore ai meriti, così quella sarebbe anteriore ai demeriti. Così, di fatti, hanno insegnato in ogni tempo i predestinaziani.

Pensiamo soprattutto a Calvinu, che ha dato a quest'ultimo errore la forma più rigida. Egli definisce la predestinazione: aeternum Dei decretum, quo... aliis vita aeterna, aliis damnatio aeterna praeordinatur 93: decreto che lo stesso Calvino non può fare a meno di chiamare horribile 94. Inutile aggiungere che l'autore della Institutio Christianae Religionis ritiene di aver dalla sua parte S Agostino, totus noster est, scrive, e pretende di ripeterne parola per parola la dottrina e dichiara che potrebbe stendere una confessione della sua fede esclusivamente con testi del Vescovo d'Ippona 95.

Ma si tratta, come vedremo subito, d'una mutilazione della dottrina agostiniana. Per un errore di prospettiva, Calvino, e prima e dopo di lui tutti i predestinaziani, non vede che un aspetto della verità, perdendo in tal modo quella visione d'insieme che costituisce l'armonia superiore del domma cattolico, che S. Agostino ha mirabilmente illustrato e difeso.

II S. Dottore afferma la predestinazione per difendere, come in una fortezza invincibile, contro pelagiani e semipelagiani, la gratuita assoluta della grazia 96. Com'è noto, la dottrina di S. Agostino su questo punto ha subito un cambiamento. Prima dell'episcopato aveva pensato che il consentire alla fede non fosse un dono di Dio, ma solo un atto del libero arbitrio, che attraverso la fede impetrerebbe la grazia di vivere secondo la legge. Meditando la lettera di S. Paolo ai Romani e, in particolare, quelle parole dell'Apostolo ai Corinti (I Cor 4, 7): Quis te discernit? Quid habes quad non accepisti?, riconobbe il suo errore 97. Già nel De diversis quaestionibus ad Simplicianum, scritto in ipso exordio episcopatus mei 98 la dottrina giusta, quella stessa che difenderà sulla fine della vita contro i monaci di Marsiglia 99.

Da quel momento egli ha sempre sostenuto che la vocazione efficace alla grazia, la giustificazione, la perseveranza finale son doni di Dio.

Ma Dio dispone fin dall'eternità di dare i suoi doni nel tempo, e darli a chi vuole. Ecco il mistero della predestinazione. Questa è la predestinazione dei santi, nient'altro: cioè la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio, con i quali indubbiamente sono liberati tutti quelli che sono liberati 100.

In questa definizione veramente stupenda, e per il contenuto e per la scultorea concisione della forma, troviamo espresse l'infallibilità, la gratuità della predestinazione e la liberazione, in cui, essenzialmente, la predestinazione consiste.

Il piano divino è assolutamente infallibile. Nessuno degli eletti perirà, perché nessuna cosa al mondo può superare la volontà divina. Ma nessuno di essi perisce, perché Dio non s'inganna 101. S. Agostino pensa soprattutto all'elezione alla gloria: illi praedestinati... quorum nullus perit 102. Si tratta d'una elezione assolutamente gratuita. È Dio che distingue tra gli eletti e i reprobi, che sceglie gli uni anziché gli altri. Il consiglio divino non ha per guida che la divina misericordia. Soltanto la grazia distingue i redenti dai reprobi 103. Alla domanda dell'Apostolo: Quis te discernit? non v'è che una risposta: solo ed esclusivamente la predilezione divina.

Ne segue che anche i nostri meriti son doni di Dio: Lo stesso merito dell'uomo è un dono gratuito 104. La corona della gloria ci verrà data, sì, a titolo di giustizia, ma i meriti per conquistarla ci vengon dati, attraverso la grazia, a titolo di misericordia. Da qui il celebre aforisma agostiniano: Quando Dio premia i nostri meriti non fa altro che premiare i suoi benefici 105.

La prescienza divina, cui accenna S. Agostino nella definizione che abbiamo riportata, non ha per oggetto i meriti nostri - questa era l'opinione dei pelagiani 106, - ma i doni stessi di Dio. La prescienza dipende dalla predestinazione e ne è inseparabile. Dio preconosce predestinando. Per la predestinazione Dio seppe in precedenza le cose che Egli avrebbe fatto 107, tanto è vero che talvolta le due parole, osserva S. Agostino, vengono prese nello stesso significato 108.

I tentativi posteriori di far dipendere, in qualche modo, la predestinazione dalla prescienza non hanno a che fare con il genuino pensiero del Vescovo d'Ippona, il quale - si aggiunga anche questo - mette costantemente sullo stesso piano la predestinazione degli adulti e quella dei fanciulli 109, anzi paragona la predestinazione degli uomini a quella di Gesù 110, dove non si sa proprio quale posto possa avere la prescienza che non sia fondata sulla predestinazione 111.

Si deve però ricordare che la predestinazione degli uomini non è che una liberazione. Nella concezione agostiniana entra come necessario presupposto il peccato d'origine, a causa del quale tutti gli uomini son diventati una massa perditionis 112. Poiché tutti son degni di castigo, Dio non sarebbe ingiusto se non liberasse nessuno 113. È dunque misericordia la salvezza di alcuni, ed è occulto ma sempre giusto giudizio la dannazione degli altri 114. Quod quidam salvatur, salvantis est donum: quod autem quidam pereunt, pereuntium est meritum 115. Queste parole del Concilio di Quiercy contro Gottschalk sono l'eco fedele della dottrina agostiniana 116.

Appare qui manifestamente la differenza tra la predestinazione e la riprovazione: questa non è il rovescio di quella, quasi ci fosse in Dio un'eguale preordinazione alla vita e alla morte, come pretende Calvino, no; ma per gli eletti la preordinazione alla vita che dice predilezione, elezione, grazia efficace; per gli altri la permissione e la prescienza della colpa, che porterà infallibilmente alla pena. Infatti sono lasciati al loro libero arbitrio senza aver ricevuto il dono della perseveranza per un giudizio di Dio giusto ed occulto 117.

Il peccato non è oggetto di predestinazione, ma solo di prescienza. La predestinazione non può essere senza la prescienza, ma sì la prescienza senza la predestinazione, e ciò precisamente in riguardo al peccato 118. La prescienza di Dio preconosce che saranno risanati da lui, li preconosce peccatori, non li fa peccator 119. Dovremmo ricordare a questo punto tutta la dottrina agostiniana sulla responsabilità del peccato - tuum quippe vitium est quod malus es 120. Ma basterà riportare un altro celebre aforisma di S. Agostino che illumina molto bene l'argomento: Signore Dio, ordinatore e creatore di quante cose esistono nella natura, dei peccati ordinatore soltanto 121.

A questo punto sorge spontanea la domanda: Dio, che non rende gli uomini peccatori ma li fa rientrare nell'ordine, ha verso tutti i peccatori una sincera volontà di salvezza, anche verso quelli che non si salveranno? Qui bisogna confessare che S. Agostino sembra mettere nell'ombra questa divina volontà. Infatti negli ultimi suoi scritti insiste nell'interpretazione restrittiva del noto testo di S. Paolo a Timoteo (I Tim., 2, 4): Deus omnes homines vult salvos fieri. Ma occorre capirne bene il pensiero. Esso è dominato da un fatto certissimo e da un principio non meno certo. Il fatto è che non tutti si salvano e che vi saran sempre due città con i loro debiti fines. Questa è la dottrina cattolica che S. Agostino difende contro gli origenisti.

Il principio invece è quest'altro: integra restando la libertà umana, Dio potrebbe salvare ognuno, se volesse 122, ché la volontà dell'Onnipotente non può essere ingiusta, ma è sempre invitta 123.

Si nasconde in questo principio l'aspetto più insondabile del mistero della predestinazione. S. Agostino lo illumina, ricorrendo ad un principio più alto, quello dell'ottimismo cristiano: Dio non permetterebbe il male se non fosse tanto onnipotente e tanto buono da trarre il bene anche dal male 124. Ritenne preferibile infatti operare il bene a partire dal male, anziché non lasciar sussistere alcun male bene 125; e si studia di indicare quale sia il bene che Dio trae dal male supremo della perdizione eterna 126.

La visione dunque abituale del pensiero agostiniano è quella della volontà divina assoluta; tant'è vero che il S. Dottore si dichiara disposto ad accettare del testo paolino qualunque spiegazione, purché non si sia costretti ad ammettere che l'Onnipotente abbia voluto qualcosa e non sia avvenuto, purché però non siamo costretti a credere che Dio onnipotente abbia voluto realizzare qualcosa senza riuscirci 127.

S. Agostino è confermato in questo suo modo di vedere dalla sorte dei bambini, molti dei quali, nonostante il volere degli uomini, ma non volendolo Dio, non si salvano: molti non si salvano perché non lo vuole Dio, anche se lo vogliono gli uomin 128. Deo nolente, si capisce con volontà efficace ed assoluta. Questo e non altro è il significato dell'espressione agostiniana che a prima vista potrebbe scandalizzare. Infatti che Iddio abbia volontà sincera di salvare tutti gli uomini, S. Agostino lo ha chiaramente affermato all'inizio della controversia pelagiana 129, ed è insito nel costante insegnamento che Gesù Cristo è morto per tutti, anche per i bambini che morranno non battezzati. Qui sono compresi anche i bambini, scrive contro Giuliano nell'Opus imperfectum, , perché pure per loro morì il Cristo, il quale è morto per tutti, proprio perché tutti sono morti 130. L'aureo libro del De correptione et gratia si chiude appunto con la visione dell'amore di Gesù Cristo verso tutti i peccatori, amore cui si deve ispirare il nostro. E chi amò i deboli più di Colui che si fece debole a vantaggio di tutti, e a vantaggio di tutti per la sua debolezza fu crocifisso? 131.

Ricorderemo infine un altro celebre principio agostiniano, ripreso dal Concilio di Trento, che completa il quadro dei suoi insegnamenti e contiene una preventiva condanna di ogni predestinazianismo: Dio non comanda mai l'impossibile. Dio dunque non comanda cose impossibili, ma comandando ti ordina sia di fare quello che puoi, sia di chiedere quello che non puoi! 132. Fluisce da questo principio che Dio non abbandona mai la sua creatura, ma è la creatura che abbandona Dio. Difatti Adamo, il primo uomo, deseruit et desertus est 133; e dopo di lui tutti i peccatori, e i reprobi, deserunt et deseruntur 134. Tra questi, i reprobi, anche se nella prescienza divina non sono veramente figli di Dio, perché Dio sa che non persevereranno, pur lo sono realmente nel tempo, quando hanno la fede e la giustificazione: in bono sunt, sed temporales sunt. Se non li chiama figli di Dio la prescienza di Dio, ciò non dipende, spiega il S. Dottore, che hanno una giustizia simulata, ma perché non persevereranno nella giustizia che possiedono, e non lo erano non perché simularono la giustizia, ma perché non rimasero in essa 135. Siamo ben lontani da Calvino.

Ma perché mai il Signore tra due giusti, a uno conceda il dono della perseveranza e all'altro no, è una questione per la quale S. Agostino non trova altra risposta se non in due espressioni di Paolo, che dicono la profondità dei consigli divini e l'assoluta giustizia di Dio: O altitudo divitiarum! e Numquid iniquitas apud Deum? A chi non piace questa risposta, prosegue S. Agostino, cerchi persone che ne sappiano di più, ma stia ben attento a non incappare in persone che solo presumano di saperne di più 136. Egli aggiunge che questa dottrina, lungi dallo spingere alla disperazione, come credevano i suoi avversari, è fonte di spirituale energia e di serena fiducia. In una parola, viviamo più sicuri nelle mani di Dio che nelle nostre. Si dirà: ma la volontà divina su di noi è incerta. S. Agostino risponde: non meno incerta è la nostra stessa volontà, così fragile, così vacillante. Se dunque ambedue sono incerte, è sapienza affidarsi alla più forte 137. Intanto dal tenore della nostra vita possiamo in qualche modo arguire se apparteniamo ad praedestinationem divinae gratiae 138.

Dunque viviamo più sicuri se diamo tutto a Dio, invece di affidarci a lui in parte e in parte a noi stessi 139. Queste parole che mettono il suggello alla dottrina agostiniana della predestinazione in un'atmosfera di totale abbandono in Dio, saranno utilmente meditate da coloro che pensano che la dottrina agostiniana ci si presenti segnata da pessimismo e che si offra un Dio dal cuore duro, vendicatore e minaccioso 140.

Tant'è vero che non tutti gli studiosi del Dottore della grazia si sono ancora liberati dall'influsso della mentalità di Calvino e di Giansenio! Noi invece siamo convinti - e questo era lo scopo del paziente lavoro di esegesi che abbiamo fatto in queste pagine - che l'agostinismo genuino dev'essere liberato dalle pesanti sovrastrutture di tutti gli pseudoagostinismi, in filosofia come in teologia, perche restituito a se stesso, brilli, con le inevitabili lacune e le inesauribili ricchezze che gli son proprie, nella sua vera luce, che è la luce della fede cattolica.